“Volammo davvero
Sopra le case, oltre i cancelli, gli orti e le strade
Poi scivolammo tra valli fiorite
Dove all’ulivo si abbraccia la vite
Scendemmo là dove il giorno si perde
A cercarsi da solo
Nascosto tra il verde”
(Fabrizio de André)
Ai primi di maggio, abbiamo lasciato il caos e la folla di Istanbul per un’immersione anticipata nella splendida e lunghissima estate del sud della Turchia.
Durante una gita in barca facciamo tappa alla foce del fiume Dalaman, in una spiaggia enorme dove due volte all’anno le tartarughe d’acqua appena nate corrono verso la vita.
La punta della scogliera che da sempre e per sempre guarda il mare aperto sfida i cercatori più irrequieti e curiosi a raggiungerla.
Ancora prima che il resto della compagnia abbia il tempo di stendere gli asciugamani e coricarsi, io e due amici siamo già partiti, chiamandoci e incitandoci a vicenda.
Corro forte, non so quanto a lungo, corro come di solito odio fare, attraverso la laguna dove la sabbia rovente si confonde con grandi pozzanghere di acqua calda come tè che ci bagna appena le ginocchia, corro saltando, girando su me stessa e ridendo come una bambina.
I due ragazzi, più veloci di me nella corsa, procedono parecchi metri davanti a me senza mai voltarsi né rallentare per aspettarmi, ma oggi proprio non ho bisogno di cavalleria.
Di colpo, dopo un’ultima lingua di terra, l’acqua si fa profonda. La corrente esercita sui nostri corpi malfermi come una carezza che mette in imbarazzo e in confusione. Possiamo anche vedere i flutti muoversi in modo quasi innaturale, in lunghe linee dritte dalla laguna fluviale verso il mare.
L’unica scelta è nuotare fino alla spiaggia davanti a noi, a poche decine di metri, alla cui estremità si staglia la punta della scogliera: sicura e pronta allo sforzo, nuoto senza staccare gli occhi dalla riva opposta, fino ad arrivarci ben prima di sentirmi davvero stanca. Oggi mi sento capace di tutto.
La felicità di esistere è una musica che mi rende impossibile sentire lo sforzo o l’ansia.
La spiaggia, oltre che in lunghezza, si estende di molto anche in profondità, in leggera salita, prima di finire in un’alta parete di roccia coperta di vegetazione.
“Guardate! Siamo ricchi!” Grido ridendo ai miei amici, raccogliendo e lanciando in aria manciate di conchiglie che ricoprono la battigia: il loro tintinnio mi riempie di gioia, più dolce di quello delle monete.
Come pellegrini del Bello e dello stupore, al momento non possediamo nulla più dei nostri indumenti- tra l’altro, vista la situazione, ridotti al minimo. Per un attimo ci dimentichiamo di cosa significhi necessitare di un computer, di libri, di soldi, perfino di un tetto sopra la testa.
Eppure è oro l’abbronzatura sulla nostra pelle, le goccioline d’acqua che la fanno brillare al sole sono diamanti.
“Sì. Davvero siamo ricchi.” Sospirano loro guardando increduli la maestosità della natura intorno a noi.
Tuttavia, in mezzo a tanta generosità è una in particolare l’unica cosa che cerco e desidero possedere: una conchiglia che sia perfettamente intera e abbia un piccolo buco sulla sommità per farne un ciondolo che mi faccia pensare ogni volta a questo giorno felice. Pochi minuti di ricerca, e trovo il mio tesoro che ora porto al collo con un nastrino.
Camminiamo a lungo prima di trovarci sulla punta della scogliera, dove l’acqua è più limpida, azzurra e verde che mai, ora ci arriva appena ai fianchi e all’improvviso scende in profondità misteriose.
Ci arrampichiamo sulla roccia non molto ripida né alta, ma resa molto ruvida dall’erosione del vento: eppure quasi non sento il dolore.
Gli scogli e le rocce sono coperti di vegetazione simile a quella che si può vedere in Sardegna. Cespugli spinosi dalle piccole foglie grigiastre, nuvole di fiorellini gialli, radici quasi bianche che sbucano appena dal terreno, pini marittimi, oleandri dai fiori rosa simili a ibischi in miniatura, origano selvatico che con il suo profumo ci fa girare la testa e anche venire un po’ di fame.
E davanti a noi il mare si estende a perdita d’occhio, bellezza allo stato puro.
Tutto questo è Nirvana o Samsara?” Significato o nonsenso? Unità o casualità? Realtà o illusione? Beatitudine o perdizione?
Lo splendore del paesaggio che ci circonda ci porta con sorprendente naturalezza verso discorsi sul senso dell’esistenza nostra e dell’universo.
Non sapremo mai quanto tempo abbiamo passato così, con tre visioni diverse in una certa vaga armonia l’una con l’altra; chissà quanto tempo siamo stati lì, pensando a milioni di domande in tre lingue diverse e alla semplice, puntiforme felicità che non ha bisogno di parole.
Gli stessi tre amici curiosi e solari che non più di dodici ore fa si scatenavano insieme al centro di una pista da ballo in preda al più brutto remix di “Bad Romance” che si possa immaginare, ora si stanno vicendevolmente mostrando la scintilla di infinito che in fondo è ciò che ci rende umani.
Comunque niente può durare per sempre.
“Posso rovinare la perfezione di questo momento?”
“No!” “No!”
“Scusate, ma dovrei veramente andare in bagno.” Il ragazzo che non a caso abbiamo soprannominato “lo scherzo ambulante” ci riporta nel clima da barzelletta che volenti o nolenti ci è quasi connaturato. (Ci sono un’italiana, un francese e un polacco alla foce di un fiume. Il francese dice…)
Ci mettiamo in cammino verso il fondo della spiaggia, da cui siamo arrivati.
Prima di tornare, vogliamo dare un’occhiata dietro la grande roccia sporgente che era di fronte a noi mentre nuotavamo verso questa spiaggia, da lontano ci è sembrato di vedere qualcosa nascosto là.
L’alta parete di pietra getta la laguna nell’ombra, l’acqua è scura e caldissima.
Davanti a noi si spalanca un miracoloso monumento naturale alla bellezza del Divino.
Una cattedrale fatta per metà dalla enorme e perfetta mezza cupola che il vento ha scavato nella roccia, e per l’altra metà dall’aria salmastra, dal ritmo delle onde, dal fruscio delle canne e dalla luce solare.
Dentro a questo immenso tabernacolo scolpito dal tempo cresce un oleandro rosa altrettanto grandioso, altissimo e ricchissimo, qualcosa di impossibile da immaginare e difficile perfino da ricordare senza un po’ di incredulità e confusione.
Sento il cuore riempirsi di gioia e traboccare. Sopraffatta dalla meraviglia e dalla gratitudine, cado in ginocchio e poi a gattoni sul fondo di sabbia fine e alghe, morbido come il tappeto di una moschea, presa dallo stesso desiderio di pregare tante volte provato in altri luoghi pervasi di sacro, tanto diversi da questo.
Le ferite inferte dall’avidità dell’uomo alla terra a cui dobbiamo tutto mostrano ogni giorno i suoi effetti ormai impossibili da ignorare; eppure per un attimo penso che niente è perduto finché questo oleandro, più grande di uno qualsiasi dei tanti alberghi che affollano spiagge non troppo lontane da questo eden risparmiato, resta padrone di questa laguna.
E forse nel momento in cui scrivo, i boccioli che ho visto allora sono nel pieno della fioritura, e i fiori allora già schiusi anche nella loro fine accendono di rosa la superficie vibrante dell’acqua di fronte al loro tempio.
Pochi istanti dopo, mi lascio risvegliare dall’oblio dalle voci dei miei amici e dal rumore dei loro passi nell’acqua, che sollevano spruzzi e arricciano la superficie della laguna.
Quasi rimpiango di averli seguiti tanto prontamente vedendoli accingersi ad andare via.
E’ il momento di nuotare nuovamente attraverso il breve tratto di corrente superato prima (quanto tempo fa?).
Torniamo dal resto della compagnia entusiasti come bambini per il viaggio compiuto e per le meraviglie viste, appena in tempo per prendere le nostre cose e avviarci di ritorno verso la barca, ancora troppo inzuppati per poterci rivestire.
Avendo raggiunto la cattedrale naturale a nuoto, non avevamo nessun mezzo per ritrarla se non la nostra memoria. Non possediamo nessuna foto e una breve ricerca su google immagini non ha dato il risultato sperato.
Purtroppo dovrete credermi sulla parola quando vi dico che questo posto esiste davvero.