Archivio mensile:dicembre 2012

Luce dona alle menti

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Uno dei due grandi temi del mio blog sono i viaggi, ma si sa, Natale con i tuoi… come cantava Elio. Il Natale è la festa della casa e della famiglia. Per questo, il viaggio in cui vi voglio condurre per questo Natale è tra le vie della mia Torino.
Dal 1998, durante il periodo natalizio (e non solo) ha luogo nelle vie e nelle piazze principali della città la manifestazione “Luci d’artista”: le classiche luminarie si accendono dell’originalità di forme, colori, idee e rappresentazioni dell’arte contemporanea.
Ho fotografato per voi alcune delle opere secondo me più suggestive. La mia macchinetta compatta e sprovvista di cavalletto vi chiede scusa in anticipo per la qualità deludente!

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La prima opera è “Piccoli spiriti blu” di Rebecca Horn. L’aura mistica e un po’ austera del convento del Monte dei Cappuccini è “elettrizzata” da un nugolo di piccoli cerchietti luminosi che dalla collina si riflettono nel Po. Il loro colore, secondo la mia personalissima interpretazione, di primo acchito stupisce molto e richiama provocatoriamente le luci delle discoteche di cui il Lungo Po è pieno, quasi ad alludere al contraddittorio e vitale miscuglio di sacro e profano che fa parte della natura di ogni città e di ogni essere umano.

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Camminando lungo via Maria Vittoria dal centro verso il Po si può ammirare, o meglio leggere “Luì e l’arte di andare nel bosco” di Luigi Mainolfi. Una delicata fiaba sulla lotta e sulla pace tra folla e solitudine, tra rumore e silenzio, che si snocciola riga per riga a colori vivaci davanti ai nostri passi, invitandoci a procedere e stimolando la curiosità del bambino che resta sempre in noi.

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La bella ed elegante via Lagrange ospita “Vele di Natale” di Vasco Are. Tra tutte le opere di “Luci d’artista” è probabilmente quella più direttamente legata all’iconografia tradizionale del Natale, eppure questi abeti addobbati vengono trasformati dalla fantasia dell’artista in qualcos’altro, in “vele”… quasi a ricordarci che è molto facile lamentarsi della propria “sfortuna”, ma che in realtà non esiste alcun vento favorevole per chi non sa dove vuole andare.

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“Cosmometrie” di Mario Airò abbellisce Piazza Carignano, antistante appunto il palazzo simbolo del risorgimento e sede della prima Camera dei deputati. Complesse e fiorite figure geometriche proiettate sul suolo attraverso dei fari, ma che sembrano quasi disegnate in gesso bianco sui cubetti in pietra, se non fosse che si spostano di tanto in tanto e che spariscono dietro alla nostra ombra!

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Il “Planetario” di Carmelo Giammello porta le principali costellazioni a pochi metri da terra sulla celebre via Roma, la via dei negozi di lusso e delle grandi firme… quasi a ricordarci che le gioie terrene sono davvero tali solo se, pur apprezzandole, non dimentichiamo di alzare lo sguardo alle stelle e al cielo…

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“Noi” di Luigi Stoisa celebra l’amore romantico in via Pietro Micca, intitolata appunto all’eroe risorgimentale che a un altro genere di amore, quello per la libertà, ha sacrificato la propria vita.

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Concludo con quella che è senza dubbio la mia opera preferita, “Amare le differenze” del mio conterraneo Michelangelo Pistoletto. La frase è scritta in colori diversi in 39 lingue. Non a caso è installata nel celebre mercato di Porta Palazzo, cuore pulsante della Torino multiculturale, vitale, contraddittoria, fatta di convivenza e di contrasto, di problemi sociali e di reciproco arricchimento. Questo luminoso messaggio di pace non viene mai rimosso e si accende la sera durante tutto l’anno, quasi a ricordarci che, come cantavano Jovanotti e Luca Carboni, “o è Natale tutti i giorni, o non è Natale mai.”

Pellegrini

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“Volammo davvero
Sopra le case, oltre i cancelli, gli orti e le strade
Poi scivolammo tra valli fiorite
Dove all’ulivo si abbraccia la vite
Scendemmo là dove il giorno si perde
A cercarsi da solo
Nascosto tra il verde”
(Fabrizio de André)

Ai primi di maggio, abbiamo lasciato il caos e la folla di Istanbul per un’immersione anticipata nella splendida e lunghissima estate del sud della Turchia.
Durante una gita in barca facciamo tappa alla foce del fiume Dalaman, in una spiaggia enorme dove due volte all’anno le tartarughe d’acqua appena nate corrono verso la vita.
La punta della scogliera che da sempre e per sempre guarda il mare aperto sfida i cercatori più irrequieti e curiosi a raggiungerla.
Ancora prima che il resto della compagnia abbia il tempo di stendere gli asciugamani e coricarsi, io e due amici siamo già partiti, chiamandoci e incitandoci a vicenda.
Corro forte, non so quanto a lungo, corro come di solito odio fare, attraverso la laguna dove la sabbia rovente si confonde con grandi pozzanghere di acqua calda come tè che ci bagna appena le ginocchia, corro saltando, girando su me stessa e ridendo come una bambina.
I due ragazzi, più veloci di me nella corsa, procedono parecchi metri davanti a me senza mai voltarsi né rallentare per aspettarmi, ma oggi proprio non ho bisogno di cavalleria.
Di colpo, dopo un’ultima lingua di terra, l’acqua si fa profonda. La corrente esercita sui nostri corpi malfermi come una carezza che mette in imbarazzo e in confusione. Possiamo anche vedere i flutti muoversi in modo quasi innaturale, in lunghe linee dritte dalla laguna fluviale verso il mare.
L’unica scelta è nuotare fino alla spiaggia davanti a noi, a poche decine di metri, alla cui estremità si staglia la punta della scogliera: sicura e pronta allo sforzo, nuoto senza staccare gli occhi dalla riva opposta, fino ad arrivarci ben prima di sentirmi davvero stanca. Oggi mi sento capace di tutto.
La felicità di esistere è una musica che mi rende impossibile sentire lo sforzo o l’ansia.
La spiaggia, oltre che in lunghezza, si estende di molto anche in profondità, in leggera salita, prima di finire in un’alta parete di roccia coperta di vegetazione.
“Guardate! Siamo ricchi!” Grido ridendo ai miei amici, raccogliendo e lanciando in aria manciate di conchiglie che ricoprono la battigia: il loro tintinnio mi riempie di gioia, più dolce di quello delle monete.
Come pellegrini del Bello e dello stupore, al momento non possediamo nulla più dei nostri indumenti- tra l’altro, vista la situazione, ridotti al minimo. Per un attimo ci dimentichiamo di cosa significhi necessitare di un computer, di libri, di soldi, perfino di un tetto sopra la testa.
Eppure è oro l’abbronzatura sulla nostra pelle, le goccioline d’acqua che la fanno brillare al sole sono diamanti.
“Sì. Davvero siamo ricchi.” Sospirano loro guardando increduli la maestosità della natura intorno a noi.
Tuttavia, in mezzo a tanta generosità è una in particolare l’unica cosa che cerco e desidero possedere: una conchiglia che sia perfettamente intera e abbia un piccolo buco sulla sommità per farne un ciondolo che mi faccia pensare ogni volta a questo giorno felice. Pochi minuti di ricerca, e trovo il mio tesoro che ora porto al collo con un nastrino.
Camminiamo a lungo prima di trovarci sulla punta della scogliera, dove l’acqua è più limpida, azzurra e verde che mai, ora ci arriva appena ai fianchi e all’improvviso scende in profondità misteriose.
Ci arrampichiamo sulla roccia non molto ripida né alta, ma resa molto ruvida dall’erosione del vento: eppure quasi non sento il dolore.
Gli scogli e le rocce sono coperti di vegetazione simile a quella che si può vedere in Sardegna. Cespugli spinosi dalle piccole foglie grigiastre, nuvole di fiorellini gialli, radici quasi bianche che sbucano appena dal terreno, pini marittimi, oleandri dai fiori rosa simili a ibischi in miniatura, origano selvatico che con il suo profumo ci fa girare la testa e anche venire un po’ di fame.
E davanti a noi il mare si estende a perdita d’occhio, bellezza allo stato puro.
Tutto questo è Nirvana o Samsara?” Significato o nonsenso? Unità o casualità? Realtà o illusione? Beatitudine o perdizione?
Lo splendore del paesaggio che ci circonda ci porta con sorprendente naturalezza verso discorsi sul senso dell’esistenza nostra e dell’universo.
Non sapremo mai quanto tempo abbiamo passato così, con tre visioni diverse in una certa vaga armonia l’una con l’altra; chissà quanto tempo siamo stati lì, pensando a milioni di domande in tre lingue diverse e alla semplice, puntiforme felicità che non ha bisogno di parole.
Gli stessi tre amici curiosi e solari che non più di dodici ore fa si scatenavano insieme al centro di una pista da ballo in preda al più brutto remix di “Bad Romance” che si possa immaginare, ora si stanno vicendevolmente mostrando la scintilla di infinito che in fondo è ciò che ci rende umani.
Comunque niente può durare per sempre.
“Posso rovinare la perfezione di questo momento?”
“No!” “No!”
“Scusate, ma dovrei veramente andare in bagno.” Il ragazzo che non a caso abbiamo soprannominato “lo scherzo ambulante” ci riporta nel clima da barzelletta che volenti o nolenti ci è quasi connaturato. (Ci sono un’italiana, un francese e un polacco alla foce di un fiume. Il francese dice…)
Ci mettiamo in cammino verso il fondo della spiaggia, da cui siamo arrivati.
Prima di tornare, vogliamo dare un’occhiata dietro la grande roccia sporgente che era di fronte a noi mentre nuotavamo verso questa spiaggia, da lontano ci è sembrato di vedere qualcosa nascosto là.
L’alta parete di pietra getta la laguna nell’ombra, l’acqua è scura e caldissima.
Davanti a noi si spalanca un miracoloso monumento naturale alla bellezza del Divino.
Una cattedrale fatta per metà dalla enorme e perfetta mezza cupola che il vento ha scavato nella roccia, e per l’altra metà dall’aria salmastra, dal ritmo delle onde, dal fruscio delle canne e dalla luce solare.
Dentro a questo immenso tabernacolo scolpito dal tempo cresce un oleandro rosa altrettanto grandioso, altissimo e ricchissimo, qualcosa di impossibile da immaginare e difficile perfino da ricordare senza un po’ di incredulità e confusione.
Sento il cuore riempirsi di gioia e traboccare. Sopraffatta dalla meraviglia e dalla gratitudine, cado in ginocchio e poi a gattoni sul fondo di sabbia fine e alghe, morbido come il tappeto di una moschea, presa dallo stesso desiderio di pregare tante volte provato in altri luoghi pervasi di sacro, tanto diversi da questo.
Le ferite inferte dall’avidità dell’uomo alla terra a cui dobbiamo tutto mostrano ogni giorno i suoi effetti ormai impossibili da ignorare; eppure per un attimo penso che niente è perduto finché questo oleandro, più grande di uno qualsiasi dei tanti alberghi che affollano spiagge non troppo lontane da questo eden risparmiato, resta padrone di questa laguna.
E forse nel momento in cui scrivo, i boccioli che ho visto allora sono nel pieno della fioritura, e i fiori allora già schiusi anche nella loro fine accendono di rosa la superficie vibrante dell’acqua di fronte al loro tempio.
Pochi istanti dopo, mi lascio risvegliare dall’oblio dalle voci dei miei amici e dal rumore dei loro passi nell’acqua, che sollevano spruzzi e arricciano la superficie della laguna.
Quasi rimpiango di averli seguiti tanto prontamente vedendoli accingersi ad andare via.
E’ il momento di nuotare nuovamente attraverso il breve tratto di corrente superato prima (quanto tempo fa?).
Torniamo dal resto della compagnia entusiasti come bambini per il viaggio compiuto e per le meraviglie viste, appena in tempo per prendere le nostre cose e avviarci di ritorno verso la barca, ancora troppo inzuppati per poterci rivestire.
Avendo raggiunto la cattedrale naturale a nuoto, non avevamo nessun mezzo per ritrarla se non la nostra memoria. Non possediamo nessuna foto e una breve ricerca su google immagini non ha dato il risultato sperato.
Purtroppo dovrete credermi sulla parola quando vi dico che questo posto esiste davvero.

Il Gran Bazar

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DSCN1540Dopo un viaggio in pullman che ricorda una gara di go kart fra autisti, automobilisti e taxisti, eccoci finalmente… sul Bosforo.
Mi godo al massimo l’odore del mare, le voci della folla, incomprensibili ma musicali, gli schizzi di spuma che salgono lungo lo scafo della barca in movimento, tocco divertita la copertura di tela cerata sopra di me dove le zampe di un gabbiano posato sono visibili in controluce.
Lo stupendo centro storico di Sultanahmet è sempre più vicino oltre il braccio di mare, i suoi colori da indistinti si fanno più vividi nella luce quasi primaverile.
Sbarchiamo davanti alla splendida Yeni Camii (Moschea Nuova), che si erge sopra l’intrico di stradine e bancarelle del mercato delle spezie in cui ci addentriamo: servizi da tè e caffè in vetro e metallo, nargilé dalle lunghe bocche variopinte, stoviglie di legno si accalcano lungo le vetrine per farsi desiderare dagli acquirenti; sacchi di spezie anche dai colori imprevedibili emanano profumi mai sentiti che si confondono gli uni con gli altri, dando un senso di leggera euforia; le foglie di vite in salamoia ingannano con il loro brutto aspetto chi non sa che sono l’ingrediente principale di alcuni ottimi piatti turchi; favolosi dolci di ogni forma e colore, tantissimi tipi di frutta secca e infusi vengono venduti ad una folla di clienti da uomini di mezza età incredibilmente flemmatici; vi sono bancarelle che vendono esclusivamente olive, in decine di varietà e condimenti diversi; lunghi fili come collane di chiodi di garofano, pomodori o melanzane essiccate, foglie di té aromatizzate con boccioli di rosa interi e altre meraviglie si contendono l’esiguo spazio con la calca di turisti e acquirenti.
Consumiamo uno dei pranzi più economici della nostra vita con una cosiddetta pizza turca, dalla farcitura abbastanza misteriosa ma molto gustosa. Compro un sacchetto di lokum, succosi cubetti a base di zucchero e acqua di rosa o succhi di frutta, talvolta ripieni di frutta secca, simili alle nostre caramelle di gelatina, ma dalla consistenza ancora migliore.
Poco lontano da questo bazar delle spezie si trova il più celebre Gran bazar coperto: come molte cose che sto vivendo in questo periodo, non è niente di immaginabile da chi non l’ha visto.
Molto più vasto dei centri commerciali dai marchi occidentali sparsi per il resto della città, questo enorme seminterrato dalle volte variopinte è il posto ideale per che desiderasse perdersi, smarrire la concezione del tempo e dello spazio per qualche ora.
Ogni negozio al suo interno è piccolissimo, la merce è tutta esposta a ridosso della porta, sulla parete esterna e su banchetti nella strada.
Al pari del mercato delle spezie, anche qui le vie sono strette e affollate, diversa è la merce che vi si vende. Centinaia di bracciali in ogni vetrina di gioielleria, più di quanti ne abbia mai visti tutti insieme, gli uni accanto agli altri formano come delle cascate d’oro splendente che abbagliano gli occhi.
Si resta letteralmente ipnotizzati da folle di piatti, vassoi, caraffe e vasi di ceramica lavorata più colorati delle illustrazioni dei libri di fiabe che da piccoli contemplavamo mille volte con lo stesso desiderio di entrarvi.
Ci si perde nei motivi geometrici e floreali delle sciarpe esposte sui muri fino al soffitto, si viene presi dall’acquolina alla sola vista dell’illustrazione su una scatola del tipico tè alla mela, sembra quasi di percepire il peso delle grosse collane d’argento e pietre dure appese insieme a decine.
Ovunque si vedono ciondoli, sonagli per le porte, collane, bracciali e soprammobili con un disco di vetro blu e un occhio azzurro stilizzato al centro: è un tradizionale portafortuna, come per noi il quadrifoglio o il ferro di cavallo.
E’ difficile dire quale sia il genere di merce più bello: me la sento però di sbilanciarmi in favore delle lampade, di una specie mai vista altrove. Appese a grandi grappoli sui soffitti con catene e sostegni tondi di metallo decorato, scaldano il cuore con una luce che sembra quella delle candele, ma impreziosita dai brillanti colori della sfera schiacciata in mosaico di vetro che le racchiude. La loro luce è così particolare che nessuna foto può rendere giustizia, bisogna vederle, e desiderarle.
Quanto a “marketing”, si sa, i Turchi sono anni luce avanti a noi: ad ogni porta, davanti ad ogni banchetto il commerciante chiama a gran voce gli acquirenti, invita a guardare, a fermarsi, e così fanno tutti i venditori insieme. Qualcuno tenta fisicamente di fermarci o ci segue per qualche metro mentre passiamo, tentando in varie lingue di portarci al suo negozio, altri origliano i nostri commenti e quando dico (in inglese o in italiano) che mi piacerebbe comprare un piatto di ceramica o una lampada ma ho paura di romperla in aereo, ci gridano dietro che hanno la confezione giusta. Ma nessuno batte l’insistenza dei venditori di tappeti, i cui negozi sembrano quasi sale da tè, perché una sorta di galateo prevede che si beva il tè insieme durante le trattative sull’acquisto, e così la maggior parte dei venditori sono attrezzati con due o tre tavolini.
Forse è facile per questi venditori che passano rapidamente da una lingua all’altra confondere tra loro l’italiano e lo spagnolo, così simili, o forse le mie fattezze traggono in errore anche la loro proverbiale abilità nell’indovinare la provenienza delle persone con una sola occhiata: resta il fatto che intorno a me ad ogni passo è tutto un “Hola! Senorita, que buscas? Es bueno, te gusta!”. Questo rende se possibile ancora più divertente questa visita, ricca di stupore e allegria.
Non si può evitare una sosta per un tè, in una piccola pasticceria dalle basse pareti scure ricoperte di arazzi, tappeti e icone cristiane.
Affascinante, divertente ma anche molto stancante! Usciamo con i piedi doloranti, ma felici.