E’ mattina e usciamo insieme a Padre Gumersindo per andare, insieme ad un catechista della zona, a visitare alcuni anziani infermi e a portare loro la Comunione.
In Kenya non esiste ancora un sistema pensionistico comune a tutti i lavoratori: a quanto ho capito, solo i dipendenti statali e chi si affida a un istituto di previdenza privato può provvedere in modo sistematico alla propria vecchiaia.
Perciò, soprattutto in questa campagna, chi può va a lavorare nei campi anche da anziano, e ne abbiamo visti molti.
In un Paese dove solo il 7% della popolazione supera i 65 anni, però, invecchiare non è solo questione di rughe: a causa delle cattive condizioni generali di vita è molto più facile che in Europa perdere la vista, la capacità di camminare o soffrire di qualche altro grave male.
Troviamo la signora Magdalen seduta per terra su di un vecchio sacco nello spiazzo erboso davanti alla sua casa, che ci permette di vedere.
Non c’è altro che una piccola costruzione in legno, priva di finestre, che contiene a mala pena un letto sormontato da una zanzariera, tre o quattro indumenti, qualche scorta di cibo e pochi altri oggetti. Di fronte ad essa, una capanna ancora più piccola e piena di spifferi tra le assi racchiude niente più di tre pietre che formano il focolare, due o tre pentole e una tanica d’acqua. Non c’è un tavolo o una sedia, se non quelle che ci porta il figlio della signora dalla propria abitazione poco lontana. No, non ho dimenticato di menzionare il bagno e il salotto: non c’è niente di tutto ciò che noi abbiamo e che diamo sempre per scontato.
La povertà e la misera condizione di chi non è più in grado di spostarsi autonomamente non le hanno tolto la dignità e l’amor proprio: per l’occasione di questa visita ha indossato un vestito a fiori in buono stato, e prima dell’inizio della breve cerimonia insiste perché la nipotina la aiuti a coprirsi il capo quasi calvo con un fazzoletto colorato.
Veniamo presentati a lei, che ci accoglie con evidente piacere, anche se parla solo la lingua locale e non possiamo comunicare a parole.
Il prete riceve dalla signora una confessione molto breve, evidentemente perché questa creatura ha ben pochi peccati da raccontare.
Poi apre la sua valigetta, dispiega un paramento bianco sulle proprie ginocchia e celebra per lei nella lingua locale un breve, essenziale rito eucaristico che io e mio marito seguiamo come riusciamo.
A fungere da tabernacolo e a contenere il cofanetto delle ostie è un vecchio barattolo di margarina. La mancanza di oro, argento, marmo e incenso non toglie nulla alla forza di questo incontro con Cristo, o forse aggiunge qualcosa.
Al termine della cerimonia, succede qualcosa che non abbiamo fotografato o filmato per rispetto, ma che meriterebbe di fare il giro del mondo, prima di fermarsi al centro di Città del Vaticano, dalla quale le missioni della Consolata non ricevono assolutamente nulla (per ora).
La signora tira fuori venti scellini e li dona al prete come offerta per la parrocchia.
Sulla fredda superficie di uno sportello di banca equivarrebbero a 20 centesimi di euro, ma qui, in questo momento, hanno un valore incalcolabile.
Niente di tutto ciò che io e Alessio potremmo mai donare, e nemmeno i milioni che donano persone molto più ricche di noi, potranno mai valere agli occhi di Dio quanto questi venti scellini, donati da chi ha bisogno di tutto.
Dio non sa contare. L’amore, la generosità, la fede, la gratitudine non sanno contare.
Ci congediamo dalla signora Magdalen stringendole le mani, e mentre lei mi benedice in una lingua che non conosco, per un attimo mi rendo conto di non essere mai stata ricca quanto lei, se non forse in questo momento.