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LET YOUR SOUL TAKE YOU WHERE YOU LONG TO BE – GIORNO II

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E’ una mattinata incredibilmente tiepida e soleggiata su Londra, e ci aspetta una giornata lunga ed entusiasmante. Facciamo una colazione leggera, portata da casa per evitare di sorbirci qualche penosa e costosissima imitazione di un cappuccino da Starbucks, che io chiamo Starbuckarozzo dopo la disgustosa avventura che mi è accaduta quando ci ho messo piede (cosa sia successo, o meglio cosa ci fosse in fondo al bicchiere, lo potete immaginare…).

Nonostante qualche inevitabile passo falso tra le complicatissime linee della metropolitana, giungiamo ancora abbastanza presto al British Museum.

Non c’è bisogno che io vi racconti cosa abbiamo visto lì: ci hanno già pensato tutti quelli che hanno scritto un libro di storia. Al British Museum c’è tutta l’umanità.

Rovine di Nimrod e di Atene, di Alicarnasso e di Persepoli, statue romane ed egizie, un moai dell’Isola di Pasqua e piccoli scacchi medioevali, ogni cosa riposa accanto all’altra come se fosse sempre stata lì nell’immenso museo. Ciò che resta dei vinti riposa nella stanza accanto a quella di ciò che resta dei vincitori. Dormono sotto gli occhi di tutti, mummie egizie e un uomo dell’età del ferro. Non cessano mai il sorriso di pietra di Ganesh e la danza immobile di Shiva. Tutto appare eternamente calmo e serenamente terminato.

Perfino chi indossò quei copricapi di piume mi piace pensare che riposi, dopo aver troppo camminato: il motivo del loro viaggio, però, si può chiamare Indians Removal Act o Trail of Tears, e non è la stessa cosa.

La storia in realtà non è qui per riposare in silenzio, è qui per parlare e per non essere dimenticata. Soprattutto, è qui per farci delle domande.

Non per niente tutte le dittature che hanno mandato in rovina intere nazioni nell’ultimo secolo hanno avuto una componente ideologica di apparente progressismo portato all’estremo, di svalutazione del passato e di baldanzosa retorica incentrata sul futuro, fino allo slogan letale “Forget your past” a lettere rosse sulla facciata dell’orrenda sede del partito comunista bulgaro, in attività fino alla caduta del muro di Berlino.

Una comunità o una persona che dimentica da dove viene ha perso se stessa: non può conoscere il senso di ciò che accade, non ha fondamenta su cui costruire una consapevolezza, in una parola non può pensare.

Ma cosa c’entra con noi una guerra combattuta duemila anni fa, uno stile artistico inventato dall’altra parte del mondo, una divinità adorata in una lingua che noi non parliamo e che magari nessuno parla più? Nella comunità globalizzata di oggi, non possiamo più permetterci di credere ci sia qualcosa al mondo che non c’entra con noi.

Se ai tempi dell’Antica Roma le cartine del mondo finivano sotto al deserto del Sahara con la scritta “hic sunt leones” (qui ci sono i leoni) a mo’ di giustificazione, adesso non possiamo più chiudere gli occhi e giocare a non sapere (forse anche perché, tra l’altro, i leoni li abbiamo quasi fatti estinguere). Tutto è collegato con tutto, nel tempo e nello spazio. Ogni evento, ogni gesto e ogni parola nell’universo fino a questo istante ha un ruolo nel fare di noi ciò che siamo.

E’ a questo che penso mentre lasciamo a malincuore il museo dopo tre ore che sono sembrate tre minuti e tre millenni. Ritornare alla realtà e al presente sarebbe traumatico, se non fossimo a Londra.

Dopo una buona camminata arriviamo nei dintorni del Her Majesty’s Theatre. C’è appena il tempo per un panino veloce, seguito dal caffè “espresso” più annacquato di sempre, prima che per me arrivi l’ora di fare finalmente ciò che desideravo da anni: vedere dal vivo il musical The Phantom of the Opera! Il titolo di questo articolo è una citazione dal libretto.

E’ piuttosto ovvio che qualsiasi spettacolo visto dal vivo è più emozionante di una registrazione. In questo caso però è ancora più vero, perché la vicenda stessa dello spettacolo è ambientata in un teatro, e così il pubblico si trova violentemente immerso nella trama, con l’impressione di essere coinvolto negli eventi. Immagine

Conosco lo spettacolo alla perfezione, ma non me ne stanco mai. Basta il primo accordo dell’orchestra dal vivo, il primo scricchiolio di scarpette da ballo dalle punte di gesso sul vecchio assito del palcoscenico, la prima nota cantata da questi interpreti splendidi per fracassare completamente la nota versione cinematografica del musical.

Per evitare di accendere un mutuo ho acquistato un posto in balconata, precisamente all’altezza del soffitto, e vedere tutto dall’alto fa uno strano effetto, ma godo di una visuale migliore di quanto mi aspettassi. Poi, con il mio binocolo posso vedere perfettamente ogni particolare, ogni espressione dei visi e approfittare dei momenti emotivamente meno carichi per ammirare come una bambina l’infinita cura dei dettagli di ogni prezioso costume.

Siamo nell’Opera Garnier buia e caduta in rovina, poi nello stesso teatro al massimo del suo splendore, nel camerino della diva e negli sterminati sotterranei, nell’ufficio dei direttori e sul tetto, in una coloratissima festa in maschera e in un cimitero innevato: gli spettacolari cambi di scenografia si susseguono leggeri come carezze e maestosi come navi da guerra.

Sembra incredibile che questi suoni di un altro mondo arrivino da qualcosa di così piccolo come delle corde vocali. Mi riesce molto più facile pensare che Geronimo Rauch e Olivia Brereton stiano in realtà suonando un organo formato da tutto il pubblico, e le nostre spine dorsali siano le sue canne. La musica e l’emozione ci attraversano come aria, i personaggi prendono vita davanti a noi e ci attirano negli abissi della loro psicologia.

Potrei parlare di questo capolavoro fino a scrivere un articolo davvero troppo lungo, come peraltro ho già fatto qualche tempo fa.

Inevitabilmente arriva anche per me il momento di riemergere dai sotterranei del teatro alla realtà.

Al momento degli inchini finali, mi porto senza dare nell’occhio a ridosso della balconata per appoggiarvi la macchina fotografica e scattare qualche immagine degli artisti che salutano. Completamente in buona fede, mi preoccupo di non ostruire la visuale a chi mi sta intorno, ma non minimamente di non essere vista dal personale del teatro: immediatamente una ragazza in uniforme viene a redarguirmi sul fatto che anche i saluti finali sono coperti da copyright. Come direbbe il mitico Crozza: “ma come vengo a scoprirle male, le cose…”

Pazienza. La mia dolce compagnia, che ha preferito una passeggiata e una birra al teatro, mi aspetta per un’altra lunga camminata.

Attraversiamo la zona signorile di Covent Garden e Fleet Street, fino ad arrivare alla cattedrale di Saint Paul. E’ il crepuscolo, e l’enorme cupola è illuminata da una luce surreale.

I dintorni della zona, come ben sa chiunque ami il film musicale di Mary Poppins, sono l’austero distretto finanziario della città, ma basta spostarsi verso il Tamigi per vedere altre meraviglie.

Il Millennium Bridge, la ruota del London Eye e il Big Ben brillano intorno a noi, azzurri, gialli e bianchi di luci che si riflettono sulla superficie increspata del fiume, come sulle pieghe di un lunghissimo vestito da sera nello scorrere di un ballo.

Grattacieli futuristici si innalzano vicini e lontani tutto intorno a noi, mentre costeggiamo i resti del duecentesco palazzo Winchester e la ricostruzione fedele del Globe Theatre dove recitava la compagnia di Shakespeare.

Ceniamo e beviamo in due bellissimi pub storici: il Blackfriars dalle luci tenui e con interni decorati in stile medioevale, dove veniamo serviti da un simpatico immigrato italiano, e lo spaziosissimo e accogliente George Inn. In entrambi si mangia e si beve divinamente e l’atmosfera è calorosa e gioviale.

Solo l’avvicinarsi dell’ora dell’ultima metropolitana ci fa rimettere in viaggio a malincuore. Ma siamo a poco più di metà dell’avventura…

LA CITTA’ DOVE TUTTI VORREBBERO ESSERE – GIORNO I

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Desideravo vedere Londra da molto tempo. Questa città, come ha efficacemente sintetizzato una dinamica signora franco-inglese-caraibica con cui ho attaccato bottone sul bus, “è il posto in cui tutti vorrebbero essere”. Per quanto possa suonare esagerato O arrogante, in parte è proprio così, e la cosa ancora più incredibile è che Londra sembra essere il posto in cui effettivamente tutti sono.

Trovarsi nella metropolitana di Londra significa sentirsi passare intorno tutta l’umanità con il tasto “avanti veloce” premuto: migliaia e migliaia di persone di ogni colore camminano ad una velocità irreale, lungo le linee di giornate e vite tutte un po’ simili e tutte un po’ uniche. La folla è qualcosa di maestoso e minaccioso, buffo e affascinante.

Ogni categoria umana si riconosce e si confonde, stereotipi e cliché si esibiscono come su una passerella e si infrangono sotto i passi rapidi della moltitudine, e tutte le diverse identità si mescolano come i tanti ingredienti di quel piatto che è la quintessenza della tradizione, ma che poi in realtà in ogni casa si cucina con una propria variante.

Questo cosmopolitismo, come ogni cosa, non è bene e non è male e allo stesso tempo è entrambe le cose. Il suo prezzo è un lungo passato coloniale: il gioco vale la candela? Giudicate voi stessi.

Ora, per una volta tanto non ho voglia di essere polemica: godetevela questa volta, perché non credo che ce ne sarà molto presto un’altra. Per adesso lasciatevi prendere per mano e portare a venerdì scorso nella metropolitana di Londra: sedetevi comodi tra un anziano signore indiano dall’aspetto ieratico e una bimba tutta treccine, e fate sferragliare l’immaginazione senza paura di perdervi nell’intricatissima rete sotterranea (però mi raccomando: mind the gap!)

Dopo aver cambiato vari mezzi di trasporto, raggiungiamo la nostra guest house nella zona residenziale di South Kensington nel tardo pomeriggio. Avendo puntato sul prezzo e sulla posizione ed essendo preparati a una sistemazione spartana, restiamo in realtà piacevolmente sorpresi da un ambiente pulito e grazioso dai freschi toni azzurri, che fornisce più comodità di quanto non lasciassero intendere le recensioni.

Lasciamo comunque quasi subito la nostra base e per tutta la vacanza ne usciremo al mattino e ci torneremo solo la sera tardi: il tempo è poco e le cose da vedere troppe!

La nostra prima tappa è la National Gallery, approfittando del fatto che il venerdì è aperta fino alle 21. Come in quasi tutti i musei londinesi, l’ingresso è gratuito.

La quantità e la varietà di opere è tale che non possiamo vedere tutto: ciò che ci interessa di più sono i capolavori del Rinascimento italiano, conservati qui come molti tesori inestimabili da tutto il mondo, talvolta con mezzi non precisamente etici. Ah già, avevo detto che non sarei stata polemica. Comunque, qualche goccia di orgoglio colorisce la pura meraviglia di fronte a Venere e Marte di Botticelli, la Vergine delle rocce di Leonardo, la Cena ad Emmaus di Caravaggio e la Maddalena di Savoldo. Questo nome è sicuramente meno noto dei primi tre, ma per me l’intimità di quello sguardo diretto, che da sotto l’argento vivo del mantello sembra volerci rivelare il miracolo segreto del rinascere, vale da solo il viaggio a Londra.Immagine

Proseguiamo verso paesaggisti e ritrattisti da tutto il mondo: perdiamo l’illusione dello spazio e del tempo immergendoci nella luce di albe e tramonti resi eterni dal colore, e incontrando migliaia di sguardi spenti da secoli, ma sempre vivi sulla tela.

Purtroppo l’orario di chiusura ci sorprende nel bel mezzo di questo stato alterato di coscienza e ci fa correre verso l’uscita, dove le mie cose, rimaste per ultime nel guardaroba, sono state già lasciate sul bancone dell’ingresso da uno steward giustamente impaziente di andarsene a casa. Insomma, veniamo letteralmente spazzati fuori dal museo, e ci troviamo di nuovo nell’incredibile Trafalgar Square. La piazza è su due livelli, con maestose fontane in quello inferiore e una grande terrazza a quello superiore, dove si può godere di una magnifica vista sulla città con il Big Ben in lontananza, mentre intorno a noi le musiche di vari artisti di strada si sovrappongono leggermente tra loro nello spazio immenso.

Abbiamo deciso di passare la serata nel movimentato quartiere di Soho: lo raggiungiamo passando da Piccadilly Circus, dove le note tenui di un suonatore di cornamusa in costume tradizionale scozzese fanno allegramente a pugni con gli abbaglianti cartelloni luminosi giganti dalla parte opposta. La piazza però non ci colpisce tanto come avevamo immaginato, forse anche a causa del fatto che il famoso monumento di Eros è coperto da un’impalcatura per un restauro.

Soho, la vecchia “China-Town” di Londra, nota fin dall’inizio del Novecento anche per gli strip club, ricorda il quartiere a luci rosse di Amsterdam con l’aggiunta di ristoranti cinesi a decine.

Visto però che la mia dolce compagnia non ama le cucine orientali, cerchiamo un posticino differente dove cenare, ma tutti i locali sono così pieni che la gente fa la coda all’esterno in attesa di entrare. Alla fine troviamo il simpatico baretto “Da Bruno”, dove davanti a un rigenerante piatto di pesce fritto e patatine, guardandoci intorno impariamo alcune nozioni fondamentali sul modo inglese di intendere il mangiare: l’enormità surreale delle porzioni, l’assenza totale di tovaglie o tovagliette, la salsiccia coi fagioli a colazione e la perversione del pollo sulla pizza.

Dopo essere stati cortesemente cacciati anche da Bruno all’orario di chiusura (le 22), passeggiamo ancora per Soho, passando sotto ai colorati archi in stile cinese che delimitano l’inizio e la fine della sua strada principale.

Nelle vicinanze si trovano anche moltissimi teatri dove si rappresentano in modo stabile, anche per anni di seguito, decine di musical: per me è il paradiso! E in paradiso per poco non ci finisco davvero, mentre attraverso la strada un po’ alla leggera per fotografare dall’angolazione migliore il Queen’s Theater e le sue enormi insegne di Les Miserables, considerato il musical di maggior successo di tutti i tempi e rappresentato qui da quasi trent’anni.

Qui a Londra il concetto di teatro è ben lontano dallo sfizio vecchiotto e un po’ snob che da noi spesso si associa ad esso. E’ tanto chiassosamente mondano e mediatico quanto a suo modo sacro, è un vero e proprio culto di massa, incomprensibile a noi italiani, che dopo aver dato al mondo l’opera lirica ci facciamo rappresentare all’Eurofestival da Emma Marrone e crediamo ancora che i film di Checco Zalone valgano il prezzo del biglietto.

Desiderosi di una buona pinta di birra con cui concludere questa prima serata, scegliamo a caso un locale in cui entrare, e ci ritroviamo in un piccolo bar gay dove montagne umane di mezza età ballano spassosi successi dance degli anni ’80 e ’90 felici come ragazzini. Il luogo però è strapieno e non c’è posto per sedersi, quindi ritentiamo con il vicino pub O’Neill, così grande che si sviluppa su tre piani. Qui troviamo un gruppo che suona dal vivo classici del pop britannico e del rock ‘n roll con un tocco irish, e attacchiamo bottone con un ragazzo cinese piantato dalla strana coppia di amici a cui regge la candela.

Dopo aver bevuto la prima di tante pinte che seguiranno nei prossimi giorni, rincasiamo e ci ricarichiamo per la lunga giornata di domani…

LUCE E OMBRA II: IL VISCONTE E IL FANTASMA

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POTOok

 LUCE E OMBRA II: IL VISCONTE E IL FANTASMA

Questo articolo è la continuazione del precedente, “Luce e ombra I”, che vi invito a leggere.

Prosegue l’esplorazione di uno dei temi più complessi in assoluto della nostra vita psichica: il rapporto con la nostra ombra. Tradizionalmente associato al male, alla bestia, al proibito, perfino al diavolo, il nostro cosiddetto “lato oscuro” è davvero solo questo?

Cos’è l’Ombra? Non pretendo certo di dirimere qui un concetto che Jung in persona, e non solo lui, ha lavorato praticamente per tutta la sua carriera a definire e approfondire. Solo qualche parola per tentare di rendere un briciolo di giustizia a questa parte di noi da sempre bistrattata.

L’Ombra è, in estrema e forse eccessiva sintesi, tutto ciò che l’individuo e la società sacrifica per il proprio buon funzionamento. Tutti dobbiamo fare delle scelte: non si può essere tutto e il contrario di tutto, una cosa non può essere giusta e sbagliata, bella e brutta, ammirata e disprezzata.

Reprimere alcuni intenti in favore di altri a cui teniamo di più è in gran parte una dinamica assolutamente sensata: rinunciamo alla nostra libertà di uccidere, rubare e truffare al fine di poter vivere tutti più tranquilli e sicuri; rinunciamo al nostro desiderio di fare sesso ad ogni occasione che si presenta con qualunque persona ci piaccia al fine di poter avere una relazione stabile e una famiglia; rinunciamo alla pazza idea di mollare tutto e vivere suonando la chitarra su una spiaggia di Rio nella speranza di ottenere una posizione di responsabilità in ufficio.

Spesso però rischiamo di buttare via per così dire il bambino insieme all’acqua sporca. Nella nostra Ombra, in ciò che più o meno consapevolmente, più o meno autonomamente decidiamo di ignorare in noi, c’è molto più che una serie di istinti meschini.

Nell’Ombra c’è quella voce che non ha peli sulla lingua e mette in dubbio ogni nostra certezza; nell’Ombra è acquattata quella rabbia che se potesse uscire dalla nostra bocca griderebbe “Basta!” alle costrizioni che subiamo in famiglia, alla relazione sentimentale che è ormai solo abitudine, ai compromessi scomodi a cui ci adattiamo per amor di pace; nell’Ombra ci aspetta quel sogno di quando eravamo bambini e tutto ci sembrava possibile, al quale credevamo di aver detto addio autoconvincendoci che un posto fisso in banca era la miglior cosa che potesse capitarci; nell’Ombra vive la persona che potevamo essere e non ce lo siamo permessi, chiunque essa sia; nell’Ombra chiacchierano impunemente tutti i “ma” e i “se” che riempiono di tante puntine il materasso del nostro sonno; nell’Ombra risuona quell’irresistibile risata che fa sembrare più piccolo tutto ciò che è la nostra vita.

L’Ombra è anche creatività, alternativa, irriverenza e domande a non finire. Se è un diavolo, è un diavolo bambino. Se ci fa del male, è lo stesso male che ci fa il dentista per curarci. L’Ombra è una parte di noi come ogni altra, ed è nostra alleata: siamo noi a rendercela nemica o a sentirla come tale.

Mi piace pensare che si chiami Ombra non tanto perché è oscura, ma perché ci segue sempre, a meno che non siamo noi stessi persi in un buio completo.

Vista la complessità dell’argomento,ho pensato di affrontarlo non con uno ma con due dei miei consueti articoli basati su una coppia di personaggi di fantasia contrapposti.

Dopo un’opera dove le protagoniste erano due donne e l’esito era tragico, ora una dove luce e ombra sono incarnati da due uomini e c’è un lieto fine almeno parziale.

STORIA: Il fantasma dell’Opera.

Originata dal romanzo di Gaston Leroux, di questa storia sono state fatte infinite trasposizioni cinematografiche e una celeberrima versione in musical, che è appunto quella che prenderemo in considerazione. Il musical ha avuto a sua volta una trasposizione cinematografica nel 2004, ma consiglio di tenere come punto di riferimento la versione teatrale, superiore a mio parere sotto ogni aspetto. Tra le varie produzioni e gli innumerevoli interpreti che si sono succeduti in quasi 30 anni di rappresentazioni consiglio ad esempio la registrazione del venticinquesimo anniversario dell’opera (2011). Qui i due ruoli maschili principali sono interpretati da Ramin Karimloo (Erik) e Hadley Fraser (Raoul). Sono abbastanza sicura che sia in commercio anche in Italia un dvd ufficiale con sottotitoli, comunque potete trovare lo spettacolo completo su youtube http://www.youtube.com/watch?v=PO9ENip4zFg.

ATTENZIONE SPOILER!

Parigi, ultimi decenni dell’Ottocento. Al teatro dell’opera Garnier la tensione si taglia con il coltello a causa di una misteriosa ed elusiva presenza che si fa chiamare “Il Fantasma dell’Opera” e, con le sue lettere minacciose e il terrore che instilla in tutti, è il vero padrone del teatro.

Il “fantasma” è in realtà Erik, un uomo che vive nei sotterranei dell’Opera, dove nasconde agli occhi del mondo la sua atroce bruttezza e coltiva in solitudine il suo incredibile genio artistico. E’ un brillante architetto, prestigiatore, ventriloquo e soprattutto musicista: canta divinamente e sta lavorando a uno spartito che farà sfigurare qualsiasi altra opera, ma non può esprimere la sua immensa creatività nella società a causa del suo aspetto terrificante, che nasconde portando sempre una maschera e non mostrandosi mai comunque a nessuno. Tuttavia, senza mai essere visto, può vedere, udire e farsi udire a proprio piacimento in tutto il teatro grazie a una serie di astute modifiche architettoniche da lui operate, cosicché ogni cosa e ogni persona nell’edificio finisce per essere da lui dominata e spiata.

Attraverso ordini scritti ai direttori del teatro, minacce e sotterfugi Erik fa in modo che Carlotta, arrogante primadonna sul viale del tramonto, venga sostituita nei ruoli da protagonista dalla giovane ballerina di fila e corista Christine Daaé, che si rivela sorprendentemente dotata nel canto.

L’ingenua ragazza è convinta di essere stata visitata negli ultimi mesi dall’“Angelo della musica” inviato come promesso dal suo defunto padre violinista a insegnarle l’arte del canto. Il suo maestro è in realtà lo stesso Erik che, innamorato di Christine, è solito introdursi non visto in un’intercapedine del muro del suo camerino ed ha finora assecondato la sua convinzione, approfittando della sua buona fede per conquistare il suo affetto e la sua devozione.

La sera del debutto trionfale di Christine è tra il pubblico il visconte Raoul, suo amico d’infanzia che nutre da allora un sincero amore per lei nonostante le differenze sociali che li separano. Dopo lo spettacolo il ragazzo va a trovarla nel suo camerino, il loro affetto si ravviva come se non si fossero mai persi di vista e lei acconsente a uscire con lui. Ma mentre Raoul va a chiamare la carrozza, Erik attira Christine dentro lo specchio del camerino che si apre come una porta, la conduce nei surreali sotterranei dell’Opera e la seduce con il suo canto e con la sua “musica della notte”, facendole però capire che non deve toccare la maschera. In preda a una sorta di estasi o ipnosi, la ragazza cade in un sonno profondo. Al suo risveglio, meravigliata e confusa, si avvicina di soppiatto a Erik mentre egli è assorto nel suonare l’organo e gli toglie la maschera, scoprendo così la verità sull’ “angelo della musica” e provocando la sua violenta ira.

In seguito ad alcuni eventi sinistri in teatro, riconosciuti come opera di Erik, tra cui specialmente l’assassinio di un macchinista, Christine comincia ad avere paura di lui, pur essendone allo stesso tempo misteriosamente attratta. Condotto Raoul sul tetto dell’edificio, gli racconta ogni cosa. Raoul la rassicura teneramente, i due si dichiarano il loro reciproco amore, si scambiano una segreta promessa di fidanzamento e si baciano. Erik, furibondo e affranto, ha visto e udito tutto a loro insaputa.

Qualche tempo dopo si tiene nel foyer del teatro un ballo di gala in maschera: mentre tutti si divertono e folleggiano, compare Erik, naturalmente mascherato. Annuncia di aver terminato la composizione della sua opera, “Don Giovanni trionfante”, ne lancia lo spartito agli astanti e ne ordina la messa in scena, esplicitando che i protagonisti dovranno essere Christine e il tenore Ubaldo Piangi, e subito scompare in una vampa di fuoco.

Raoul e i direttori del teatro vedono in questa rappresentazione l’occasione di tendere una trappola al Fantasma: ansioso di vedere Christine eseguire il suo capolavoro commetterà di certo qualche imprudenza, si mostrerà in qualche modo e loro, con l’aiuto della polizia, saranno pronti ad arrestarlo. Pur confusa, spaventata e riluttante, Christine accetta e l’opera va in scena. Vuole costruirsi una vita con Raoul ma allo stesso tempo non vorrebbe tradire Erik, poiché nonostante tutto resta sempre vivo in lei il sentimento di adorazione per l’ “angelo della musica” legato alla memoria di suo padre; ha paura di cos’altro la malvagità di Erik potrebbe fare se si provoca la sua ira, ma si sente tuttavia profondamente legata a lui per quanto con la razionalità cerchi di opporre resistenza.

Nello spettacolo rappresentato, Don Giovanni riesce a conquistare la sua “preda” attraverso un sotterfugio che prevede l’uso di un travestimento e uno scambio di persona: proprio a questo punto della rappresentazione Erik si introduce dietro le quinte, uccide Ubaldo, si sostituisce a lui ed entra in scena.

Nella scena che viene rappresentata, Don Giovanni seduce la sua ospite al punto da indurla ad abbandonare ogni reticenza e dimostrargli la sua passione.

Qui, in una sequenza che è un assoluto capolavoro di meta-teatro (e lasciatemelo dire, di recitazione), si sovrappongono e si confondono i personaggi (e gli spettatori) di Don Giovanni trionfante e di Il fantasma dell’Opera, e nel giro di pochi attimi, proprio mentre i due cantano “i nostri giochi di finzione sono giunti alla fine”, nessuno sa più cosa stia davvero accadendo.

Impossibile stabilire con certezza fino a che punto Christine è convinta di avere a che fare con Ubaldo, e quando si accorge che si tratta di Erik: dal primo momento in cui sente la sua voce, a poco a poco nel corso della scena, solo alla fine? E anche allora, mette in scena il desiderio del suo personaggio per Don Giovanni solo perché lo spettacolo deve continuare, o il proprio per Erik, nascondendosi dietro la finzione scenica come lui dietro la sua maschera?

Comunque Raoul tra il pubblico si inquieta e si insospettisce.

Sulle ultime note del brano Erik infila il proprio anello al dito di Christine, ma lei gli toglie nuovamente la maschera, denudando la sua bruttezza davanti a tutto il pubblico.

I poliziotti scattano, Raoul abbandonata la sua indole calma e pacata spara a bruciapelo verso Erik, ma mentre i proiettili lo mancano lui riesce a fuggire nel labirinto delle sue botole che portano ai sotterranei, portando via Christine.

Raoul decide allora di scendere al suo inseguimento e affrontarlo direttamente. Quando giunge alla sua dimora sotterranea, lo trova insieme a Christine vestita da sposa.

Erik, ormai senza maschera, cattura Raoul passandogli un cappio al collo e ricatta la ragazza imponendole di scegliere se accettare di passare tutta la vita con lui o vederlo uccidere il suo fidanzato.

Lei si sente delusa, tradita, ingannata ed estremamente arrabbiata con lui, ma alla fine con un supremo sforzo di comprensione si immedesima in lui e lo bacia, non una ma due volte. Erik allora capisce che Christine è disposta a restare con lui non solo per evitare la morte di Raoul ma anche perché lo accetta profondamente.

Commosso, lascia andare i due. Prima di scomparire risalendo le scale, Christine torna indietro, restituisce l’anello a Erik, gli bacia la mano e poi si affretta dietro a Raoul.

Erik, al colmo dell’emozione e pazzo di dolore, al sentire i passi dei poliziotti sulle sue tracce sparisce nel nulla con uno dei suoi trucchi, lasciando trovare sulla scena agli inseguitori soltanto la sua maschera.

Tutta l’opera (e molto di più il libro, che qui non tratto per non dilungarmi ancora più di quanto sto già facendo) è intessuta di un simbolismo che rimanda al dialogo tra conscio e inconscio, razionalità e sentimento, accettabile e inaccettabile, luci e ombre della nostra mente.

Qui la vera protagonista, a dispetto del titolo, è Christine, che rappresenta l’anima di ognuno di noi alle prese con le sue interiori contraddizioni.

Raoul è il principe azzurro delle favole, è un amore puro e sincero oltre che un partito assolutamente desiderabile dal punto di vista sociale; è pacato, rassicurante, pratico, razionale e diretto, ma anche coraggioso e disposto a combattere per la sua amata. Completamente trasparente, coerente, monolitico, sembra privo di punti oscuri o contraddittori. Più volte nel testo si paragona ed è paragonato alla luce, all’estate, al rifugio sicuro. Raoul è l’evidenza, l’armonia con le regole della società, la ragione , la sfera conscia della nostra psiche.

Erik all’opposto è l’irrazionalità, la pazzia, i sentimenti violenti, l’amore ossessivo e possessivo, ma anche il genio artistico e il mistero. Si paragona ed è paragonato alla notte, al sogno, all’oscuro, alla musica. Il suo posto sono i sotterranei della nostra psiche, l’inconscio, dove Christine ne resterà sedotta e dove Raoul scenderà coraggiosamente per affrontarlo. Gli unici momenti in cui può farsi vedere, e perfino ammirare dalla società sono quelli protetti dalla “zona franca” che solo la finzione dichiarata può dare: il ballo in maschera, l’opera teatrale.

Il “fantasma” al quale viene ingenuamente paragonato dalla gente del teatro rimanda anche al passato, a ciò che dovrebbe riposare in pace ma non lo fa, alla persecuzione: il nostro inconscio infatti ha molto a che fare con il nostro passato, e in particolare con le sue pagine incompiute.

Erik sembra racchiudere in sé tutti i più inaccettabili paradossi, tutti gli estremi. Il suo viso è tanto orrendo e terrificante quanto è splendida e irresistibile la sua voce; i suoi occhi, la cui immagine sembra ossessionare Christine, “minacciano e adorano” allo stesso tempo; ha in sé un’incredibile creatività e molteplici talenti, ma li piega altrettanto facilmente alla creazione del bello e dell’arte, quanto all’omicidio, al ricatto e a quello che oggi chiameremmo stalking; sembra totalmente privo di alcuno scrupolo morale riguardo alle proprie azioni malvagie e violente, tutte derivate però dal suo bisogno di essere amato.

A ben vedere, tutto il dramma della sua condizione deriva dall’impossibilità di essere accettato dalla comunità umana e guardato in viso come chiunque altro.

Lo stesso si può dire del nostro inconscio, del nostro cosiddetto lato oscuro, della nostra Ombra: è l’ignoto in essa a farci paura. Il nostro profondo, come il viso di Erik, può essere molto spiacevole a guardarsi. Tutto il male che esso può farci, tutto il dolore che può causare nella nostra vita si scioglie davanti alla nostra accettazione e amore per noi stessi nella nostra interezza, come si sciolgono le lacrime del “fantasma” al tocco delle labbra di Christine.

Nel teatro dell’opera della nostra psiche, è come se noi fossimo continuamente al nostro debutto sul palcoscenico della vita: la ragione e la società ci guardano dall’alto dei palchi, ma nel raccoglimento del nostro camerino e nel silenzio dei nostri sotterranei dimenticati, che lo vogliamo o no, è il nostro inconscio a guidarci e a farci da maestro.

Quando ci lancia provocatoriamente il suo spartito, non possiamo fare a meno di prenderlo al volo. Se guardiamo appena dietro la superficie del nostro specchio che riflette la nostra immagine, l’inconscio è lì da sempre.

Se con la nostra razionalità tentiamo di ribellarci alla nostra Ombra, vogliamo ignorarla o crediamo di poterla dominare o ingannare, non solo essa rivolterà contro di noi i suoi aspetti più violenti, ma noi finiremo per esserne, senza saperlo e senza capirlo, ancora più soggiogati e invischiati.

Se alla nostra Ombra togliamo la maschera di fronte alla ragione, le luci troppo forti del palcoscenico la faranno per forza apparire orrenda e inaccettabile, e i nostri poliziotti interiori scatteranno per arrestarla.

Ma se invece conosciamo e comprendiamo la nostra Ombra, se ci lasciamo scendere nei sotterranei con lei, se ascoltiamo la sua canzone, essa ci lascerà liberi di andare e di tornare, senza più ricatti.

Il nostro inconscio, con buona pace di Freud, non è lì per rovinarci la vita, per farci dispetti come un bambino capriccioso e viziato. Il nostro inconscio, la nostra Ombra, è una parte di noi che ha bisogno di vivere in armonia con le altre.

A modo suo ci ama.

E noi, solo dopo averla accettata e riamata a nostra volta, potremo finalmente scegliere di risalire verso la luce del giorno.

LUCE E OMBRA I: IL CIGNO BIANCO E IL CIGNO NERO

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Un film, in poco tempo e con grande efficacia, è in grado di veicolare significati profondi, e perfino di illustrare in modo chiaro concetti di psicologia anche molto complessi.
In una serie di articoli vorrei quindi guidarvi alla scoperta di nozioni psicologiche utili nella vita di ognuno di noi, attraverso l’analisi di personaggi cinematografici.
NON SI TRATTA DI RECENSIONI di film, bensì dell’illustrazione di una coppia di personaggi.ninalily

Oggi voglio confrontarmi e confrontare chi mi legge con uno dei tempi più complessi in assoluto della nostra vita psichica: il rapporto con la nostra ombra. Tradizionalmente associato al male, alla bestia, al proibito, perfino al diavolo, il nostro cosiddetto “lato oscuro” è davvero solo questo?
Cos’è l’Ombra? Non pretendo certo di dirimere qui un concetto che Jung in persona, e non solo lui, ha lavorato praticamente per tutta la sua carriera a definire e approfondire. Solo qualche parola per tentare di rendere un briciolo di giustizia a questa parte di noi da sempre bistrattata.
L’Ombra è, in estrema e forse eccessiva sintesi, tutto ciò che l’individuo e la società sacrifica per il proprio buon funzionamento. Tutti dobbiamo fare delle scelte: non si può essere tutto e il contrario di tutto, una cosa non può essere giusta e sbagliata, bella e brutta, ammirata e disprezzata.
Reprimere alcuni intenti in favore di altri a cui teniamo di più è in gran parte una dinamica assolutamente sensata: rinunciamo alla nostra libertà di uccidere, rubare e truffare al fine di poter vivere tutti più tranquilli e sicuri; rinunciamo al nostro desiderio di fare sesso ad ogni occasione che si presenta con qualunque persona ci piaccia al fine di poter avere una relazione stabile e una famiglia; rinunciamo alla pazza idea di mollare tutto e vivere suonando la chitarra su una spiaggia di Rio nella speranza di ottenere una posizione di responsabilità in ufficio.
Spesso però rischiamo di buttare via per così dire il bambino insieme all’acqua sporca. Nella nostra Ombra, in ciò che più o meno consapevolmente, più o meno autonomamente decidiamo di ignorare in noi, c’è molto più che una serie di istinti meschini.
Nell’Ombra c’è quella voce che non ha peli sulla lingua e mette in dubbio ogni nostra certezza; nell’Ombra è acquattata quella rabbia che se potesse uscire dalla nostra bocca griderebbe “Basta!” alle costrizioni che subiamo in famiglia, alla relazione sentimentale che è ormai solo abitudine, ai compromessi scomodi a cui ci adattiamo per amor di pace; nell’Ombra ci aspetta quel sogno di quando eravamo bambini e tutto ci sembrava possibile, al quale credevamo di aver detto addio autoconvincendoci che un posto fisso in banca era la miglior cosa che potesse capitarci; nell’Ombra vive la persona che potevamo essere e non ce lo siamo permessi, chiunque essa sia; nell’Ombra chiacchierano impunemente tutti i “ma” e i “se” che riempiono di tante puntine il materasso del nostro sonno; nell’Ombra risuona quell’irresistibile risata che fa sembrare più piccolo tutto ciò che è la nostra vita.
L’Ombra è anche creatività, alternativa, irriverenza e domande a non finire. Se è un diavolo, è un diavolo bambino. Se ci fa del male, è lo stesso male che ci fa il dentista per curarci. L’Ombra è una parte di noi come ogni altra, ed è nostra alleata: siamo noi a rendercela nemica o a sentirla come tale.
Mi piace pensare che si chiami Ombra non tanto perché è oscura, ma perché ci segue sempre, a meno che non siamo noi stessi persi in un buio completo.
Vista la complessità dell’argomento, lo svilupperò nel corso di due articoli che ci poteranno alla scoperta di quattro affascinanti personaggi non solo cinematografici, ma anche teatrali e letterari.
Cominciamo affrontando la questione dal punto di vista femminile.

Film: Il cigno nero (2010)
Interpreti: Natalie Portman (Nina), Sarah Lane (Nina nella maggior parte delle scene di danza), Mila Kunis (Lily)

ATTENZIONE SPOILER: Se non avete ancora visto questo capolavoro, fatelo prima di leggere l’articolo, perché è indispensabile discutere di tutta la trama, e del finale soprattutto.

New York. Il direttore artistico Thomas annuncia alla sua compagnia di danza classica di voler mettere in scena il balletto “Il lago dei cigni” con una nuova protagonista.
Il ruolo principale richiede di interpretare sia Odette, la dolce e innocente principessa innamorata del principe Sigfried e vittima di un sortilegio malefico che solo una promessa di eterno amore può spezzare e che la trasforma in cigno bianco durante il giorno; sia Odile, la scaltra e maliziosa figlia del mago Rothbart, in parte cigno nero e in parte bellissima ragazza, la quale riesce a fingersi Odette agli occhi del principe e a sedurlo, sottraendolo all’altra e condannandola così a restare per sempre prigioniera dell’incantesimo di Rothbart.
Si prospetta quindi la grande occasione per la ballerina Nina, volitiva e autocritica ma allo stesso tempo molto infantile, che vive con una madre severa e morbosa, la quale la tratta come una bambina e la tiene sotto controllo anche in bagno e nella camera da letto, ancora rosa e piena di bambole.
Il giorno del provino Nina nota in metropolitana una misteriosa e attraente ragazza vestita di nero che, ignara di lei, compie esattamente i suoi stessi gesti come se fosse uno specchio, e che si rivela essere Lily, una nuova ballerina della compagnia.
Come afferma il direttore artistico, Nina risulta essere ideale nel ruolo del cigno bianco ma incapace di rendere la sensualità e la malizia del cigno nero. La sua tecnica è perfetta, ma manca di espressività e passionalità. Nonostante questo, Thomas assegna a lei la parte della protagonista, mettendola così alla prova come ballerina e come donna. Nel tentativo di scuoterla le rivolge anche improvvise e spicce attenzioni erotiche, ma Nina, nonostante l’attrazione che prova per lui, si chiude ancora più rigidamente in se stessa.
Poco dopo, Thomas decide di far provare il ruolo del cigno nero alla nuova arrivata Lily, sottolineando a Nina quanto l’altra interpreti magnificamente il ruolo di Odile.
Inizia allora per Nina un travagliato rapporto di amicizia e rivalità con Lily, dove realtà e fantasia, fatti e allucinazioni si confondono nella mente della protagonista, resa sempre più fragile dall’infrangersi delle sue certezze di fronte alla crescente tensione sul lavoro e all’intrigante collega.
La “realtà” della trama del film e la “finzione” della trama del balletto si intrecciano per Nina-Odette, Lily-Odile e Thomas, padrone del loro destino come Rothbart e conteso tra loro come Sigfried.
Una sera Lily “rapisce” Nina alla madre, la porta in discoteca e al ritorno resta in camera sua, dove le due ragazze hanno un rapporto sessuale nel quale finalmente Nina si lascia andare.
Il giorno dopo, però, quando Nina accenna a quanto è accaduto Lily cade dalle nuvole, afferma di aver passato la notte con un ragazzo conosciuto in discoteca e deride l’amica.
La protagonista, assalita dalla confusione, sente di stare sprofondando sempre di più nella pazzia e nella totale immedesimazione con il proprio personaggio.
Arriva la sera della prima esibizione. Dopo aver danzato la prima parte dell’opera nel ruolo di Odette, in camerino Nina vede Lily vestita da cigno bianco come lei, pronta a farle da sostituta se dovesse infortunarsi durante lo spettacolo, ma il timore che voglia rubarle il trionfo scatena in lei un improvviso raptus di violenza: ferisce a morte la compagna con una scheggia di specchio e nasconde il cadavere sanguinante in bagno. Poi entra in scena nel ruolo del cigno nero.
In una sequenza di fortissimo impatto visivo, Nina riesce finalmente per la prima volta a liberare il proprio cigno nero interiore in un’interpretazione prepotente e sublime. Il pubblico e Thomas la adorano. Appena dietro le quinte, Nina lo bacia davanti a tutta la compagnia.
Nel finale, Nina deve vestire di nuovo i panni di Odette che, perdente nella contesa con Odile per l’amore di Sigfried, si suicida gettandosi da una rupe.
In camerino, non trova più traccia del corpo di Lily e della grossa pozza di sangue di prima, ma sente il dolore di una ferita piena di frammenti di vetro sulla propria pancia. Mentre una macchia rossa si allarga sul suo corpetto bianco, Nina si precipita in scena e danza l’ultimo brano. Dopo un ultimo sguardo alla madre tra il pubblico, cade sul materasso posto dietro alla scenografia della rupe ed esala l’anima sussurrando a Thomas: “Ero perfetta.”

Gli ampi spazi concessi in questo film, in termini visivi e di sceneggiatura, al surreale e al paradosso lasciano molte possibilità interpretative.
La mia è che Lily non sia affatto una persona reale, ma una parte di sé che la protagonista, nel suo disagio psichico, rifiuta e proietta all’esterno, in una persona immaginaria, per poterla tenere lontana e separata. Questa parte è l’Ombra di Nina, della quale Lily incarna tutte le contraddittorie e complesse caratteristiche.
E’ evidente fin da subito quanto le due ragazze abbiano personalità diametralmente opposte: Nina, sempre vestita di bianco e rosa, affronta con severità se stessa e la vita, quasi si priva del cibo, non ha mai avuto esperienze sessuali e non riesce ad emanciparsi dal rapporto morboso con la madre; Lily, che veste sempre di nero, è scherzosa e sicura di sé, ambigua e schietta allo stesso tempo, è disinibita con gli uomini e libera nel suo godersi la vita.
Nina porta sempre un coprispalle per nascondere i graffi che si procura da sola sulla schiena nei momenti di rabbia e frustrazione contro se stessa, Lily nella stessa zona ha un grosso tatuaggio con due calle che ricordano anche due occhi aperti o due ali nere.
In Lily è la vita notturna con le sue intriganti opportunità, la sensualità e i piaceri, ma anche la spensieratezza, la giocosità e l’ironia. Lily, come Odile, inganna, prende in giro e scompiglia le carte in tavola, ma ha anche l’assoluta trasparenza e spontaneità di chi è perfettamente sicuro di sé nel presentarsi al mondo.
Nina, al contrario, non può permettersi di essere completamente se stessa a tutto tondo: schiacciata tra le pretese della madre e la propria ambizione, è spietata verso se stessa e si prende sempre terribilmente sul serio: non è in grado di giocare con la vita.
Fin dall’inizio primeggia tra le compagne nel suo talento e nella stima del direttore artistico, e sembra destinata a trionfare. Come ognuno di noi, però, Nina non può esimersi dal confronto con la propria ombra, Lily.
Lily possiede le qualità artistiche che mancano a Nina, ma quest’ultima non riesce a vedere in questo un’occasione di imparare qualcosa di nuovo, si chiude anzi sempre di più in un atteggiamento astioso, rigido e unilaterale.
In seguito, Nina e la sua Ombra riescono ad avvicinarsi fino a vivere una metaforica unione erotica: questo infrange in Nina il precedente blocco nei confronti della sessualità, ma al contempo con la sua forza innovativa troppo dirompente la sprofonda ancora di più nella confusione tra realtà e allucinazione.
E’ solo quando, uccidendo Lily, Nina riesce a esprimere la propria istintualità e la propria aggressività, che si apre finalmente in lei l’interrotto canale di comunicazione con tutto ciò che l’Ombra rappresenta, consentendole di interpretare alla perfezione il cigno nero.
Alla fine, però, uccidendo una parte così importante di sé Nina ha ucciso se stessa. Nina muore vittima del proprio perfezionismo. L’ambizione di essere perfetta, senza ombre (la sua l’ha pugnalata), assolutamente splendente come il suo candido costume sotto le luci del palcoscenico l’ha spinta fino a darsi veramente la morte per interpretare al meglio la scena del suicidio di Odette. Una sola esibizione perfetta vale la sua intera vita e anche la sua morte, sottraendola a un’esistenza e ad una carriera appena all’inizio e all’amore di Thomas che era ormai diventato possibile.
Il senso di tutto ciò è che ognuno di noi, per continuare a vivere, deve accettare di avere dell’Ombra in sé, di avere dei limiti e di non poter essere perfetto.
La nostra Ombra è a modo suo un’amica vera, come Lily per Nina, senza la quale il nostro atteggiamento unilaterale verso la vita diventa solitudine.