In Italia abbiamo così tanti tesori storici e artistici che, paradossalmente, tendiamo a sottovalutarli: ci sono posti in Italia che i turisti stranieri conoscono meglio di noi.
Uno di questi è il monastero fortificato della Sacra di San Michele a Sant’Ambrogio, all’imboccatura della Val Susa, nei pressi di Torino.
In una domenica fredda come quella appena trascorsa, la prima idea che viene in mente è quella di cercare calore e distrazione in un centro commerciale, finendo per arrivare a casa più frastornati di prima, pronti per iniziare con un broncio perfetto l’ennesimo lunedì sgradito.
Ma ecco che basta salire un pochino, e tutto cambia. La città non si vede quasi mai dalla cima del Monte Pirchiriano, dove la massiccia abbazia fortificata di pietra millenaria sembra librarsi leggera nel vuoto.
Il paesaggio intorno è avvolto in una lieve foschia, che attutisce i rumori del mondo sottostante e accentua l’impressione di trovarsi in un magico angolo dove il tempo si scorda di passare, ma non disdegna di fermarsi.
L’atmosfera ricorda molto “Il nome della rosa” di Eco: non a caso proprio questo luogo ha ispirato in parte il romanzo, ed era stato proposto per l’ambientazione del film.
La Sacra è uno dei tre principali santuari dedicati all’arcangelo Michele in Europa: rispetto a Mont-Saint-Michel in Normandia e a San Michele Arcangelo nei pressi di Foggia, si trova perfettamente allineata e distante 1000 chilometri da entrambi i luoghi. I tre santuari tracciano idealmente un’enorme freccia che dal Nord Europa punta verso la Terra Santa, meta del pellegrinaggio che era un caposaldo della cultura e della spiritualità medioevale.
La Sacra fortezza fu fondata alla vigilia dell’anno 1000, e poi notevolmente ampliata nei secoli successivi, proprio per accogliere i pellegrini che compivano il lunghissimo viaggio lungo la Via Francigena. Nel momento di massima espansione, nell’abbazia vivevano fino a cento monaci benedettini.
Tra il ‘500 e il ‘600, il declino della cultura del pellegrinaggio, la corruzione interna e le razzie dei soldati di passaggio portarono il santuario all’abbandono, nel quale rimase per due secoli.
Nel 1836, i Savoia vollero riportarlo alla vita affidandolo ai rosminiani.
Attualmente la Sacra è abitata da due monaci, e pur essendo meta turistica dichiarata simbolo del Piemonte, conserva la sua natura sacra e religiosa, ed è proprio questo a rendere indimenticabile una giornata trascorsa qui.
Il santuario è raggiungibile sia a piedi che in macchina. Da qui parte il Sentiero dei Franchi, noto agli appassionati di escursionismo.
Giunti ai piedi della scalinata che conduce alla chiesa, incontriamo l’Arcangelo ritratto in una statua di bronzo di fattura contemporanea, con una mano aperta verso il cielo in un gesto di accoglienza, e l’altra rivolta verso la terra, pronta a impugnare di nuovo la spada che ha conficcato nel terreno dopo aver sconfitto il male. Curiosamente, questo atteggiamento delle mani si ritrova nel ballo tradizionale dei monaci musulmani detti Dervisci rotanti.
In una nicchia naturale nella roccia viva, alcuni arbusti di rosa riescono a superare l’inverno e sono già carichi di piccoli germogli rossi.
Saliamo la ripida scalinata, ma all’entrata di quella che crediamo la chiesa ci aspetta un’altra salita, vertiginosa in ogni senso possibile: è lo Scalone dei Morti. Più che una semplice scala, una scultura di cui chi sale entra a far parte, e che rappresenta la risurrezione a nuova vita attraverso la Fede.
Ai lati, dal pavimento e dalle pareti, spunta da ogni parte la roccia viva del monte. Al centro, un enorme pilastro sorregge il peso della chiesa che si trova sopra di noi. In alcune nicchie scavate nel muro, fino a pochi decenni fa erano esposti gli scheletri dei monaci defunti da tempo, per dire ai vivi che questa vita non è per sempre e non è tutto. La salita è così ripida, il luogo così inquietante, che si ha l’impressione di poter cadere da un momento all’altro: ma ecco che di fronte a noi si spalanca il portale finemente scolpito detto “Dello zodiaco”, e ci accorgiamo che stiamo andando verso la luce del giorno, così forte da abbagliarci. Un’esperienza molto simile a quella che nell’immaginario collettivo rappresenta il trapasso. E cosa troviamo al di là? Un arrivo, una fissità, una fine? Niente affatto: la scala prosegue all’aperto, la vita continua, sotto una magnifica struttura a contrafforti, ariosa e molto suggestiva anche se non originale.
L’interno della chiesa (finalmente) presenta un misto tra lo stile romanico e lo stile gotico, unificati da una sobrietà che si addice alla natura mistica del luogo. Un canto gregoriano in sottofondo ci riporta le voci dei monaci che ogni mattina attendevano pregando il sorgere del sole, e come loro ci sediamo rivolti verso la grande finestra dell’abside ad Est. Niente oro, niente pomposi candelabri, niente sfarzo: la luce del giorno è l’unico ornamento di questa chiesa. Fatta eccezione, certo, per alcuni bellissimi e sobri affreschi di epoca rinascimentale alle nostre spalle.
All’uscita dalla chiesa si possono vedere i resti in rovina di quello che era un grande complesso a quattro piani dove i monaci vivevano, lavorando e producendo quasi tutto ciò di cui avevano bisogno.
Una torre aperta a metà resiste, quasi sospesa sull’abisso che ci separa dal mondo. E’ detta la torre “della Bell’Alda” per via di una leggenda interessante. In tempi di guerra la gente dei borghi circostanti trovava ospitalità e sicurezza presso l’abbazia fortificata. Tra loro c’era una bellissima ragazza di nome Alda, inseguita da un soldato di ventura che voleva abusare di lei. Giunta in cima alla torre, si rese conto che non aveva scampo e che l’unica via di fuga era il finestrone che dava sul vuoto. Pregando San Michele di soccorrerla, la ragazza si gettò fuori e trovò due angeli che la presero e la posarono delicatamente in fondo alla scarpata. Esaltata dall’avventura vissuta, la bella Alda andò per il paese vantandosi di ciò che le era accaduto e volle replicare il tuffo per poter essere stavolta vista da tutti. Come era prevedibile, gli angeli non si scomodarono per una cosa così futile, e la ragazza vanitosa si sfracellò tra le rocce.
Dopo aver ascoltato dalla guida questa favola, che come tutte le favole contiene un po’ di verità, siamo pronti per tornare rigenerati alla vita di tutti i giorni.
Non prima però di vedere ciò che riassume magnificamente e fissa nella nostra memoria la spiritualità di questo luogo: la mostra fotografica di Franco Borrelli dedicata proprio alla Sacra, frutto di un anno di osservazione, sensibilità, pazienza, lavoro e abilità.
Nelle foto dell’artista, il cielo è più grande della terra, la luce è protagonista, la bellezza è nella semplicità e ogni cosa è guardata da un’angolazione inconsueta: è il mondo visto da chi cerca e trova Dio.