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Professionisti della salute psicologica: un po’ di chiarezza

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Tempo fa scrissi, sempre su questo mio blog, un articolo in cui mi scagliavo non solo contro gli pseudo-professionisti che operano nel campo della salute psicologica senza un’adeguata preparazione, ma anche contro lo stato di generale disinformazione in cui il cittadino spesso viene lasciato.
Adesso cercherò di fare il poco che posso per modificare la situazione: cercherò di fare il punto in modo chiaro e conciso sulle molte professionalità che si occupano di salute mentale, sulle loro caratteristiche, competenze e differenze, cominciando da ciò che conosco più direttamente. Molti di questi professionisti operano in una grande varietà di campi e contesti, ma qui concentriamoci su quello clinico, ovvero la classica seduta, in gruppo o singola, nel privato o nel pubblico.

Lo psicologo: Ha una laurea magistrale in psicologia, ha superato un esame di stato alla fine degli studi per ottenere l’abilitazione alla professione, ed è iscritto all’ordine degli psicologi.
Lo psicologo opera avendo come obiettivo il benessere della persona, e partendo dal presupposto che il paziente non soffre di gravi e pervasivi disturbi psichici, ma si trova semplicemente in un momento di difficoltà dal quale può uscire con un po’ di aiuto.
Il suo unico strumento è la parola, che si esprime soprattutto attraverso il suo complementare, ovvero l’ascolto.
Può però effettuare diagnosi, e quindi usare quasi tutti i test diagnostici, da quelli sulla personalità a quelli sul livello cognitivo.
Nel caso in cui, nel corso dei colloqui o in seguito a questi accertamenti, emergano problematiche più profonde, uno psicologo onesto ha il dovere di ammettere i propri limiti e di affidare il benessere del paziente a un professionista maggiormente o diversamente formato. Lo psicologo non può condurre una vera e propria psicoterapia, e nemmeno dispone di strumenti efficaci per curare alcune tipologie di problemi, come quelli neurologici.
Lo psicoterapeuta: è uno psicologo o un medico che, dopo la laurea, ha frequentato un’apposita scuola di specializzazione riconosciuta dal MIUR della durata di almeno 4 anni.
Esistono moltissime scuole di specializzazione che si rifanno a impostazioni e scuole di pensiero molto differenti: per questo, gli psicoterapeuti operano in molti modi completamente diversi. Se vi siete trovati male con uno, fortunatamente non vale la massima tanto spesso attribuita agli uomini, ovvero che “sono tutti uguali”: provate a cambiare, scegliendone uno che segua una diversa scuola di pensiero, perché probabilmente quella precedente non faceva al caso vostro.
Inoltre, anche il fatto che lo psicoterapeuta sia uno psicologo oppure un medico può influenzare il suo modo di lavorare.
Abbiamo detto che è compito dello psicoterapeuta prendersi cura di pazienti che soffrono di disturbi di una certa entità: questo non significa però che un percorso psicoterapeutico sia riservato a persone “malate”, o che se vi viene consigliata una psicoterapia vuol dire che siete “pazzi”. Questi due termini hanno perso completamente il loro significato stretto, che era legato a una mentalità ormai superata e a una concezione di “terapia” che non aveva nulla, o quasi, a che vedere con la cura della persona. Anzi, un percorso psicoterapeutico è anche un’occasione di conoscenza e miglioramento di sé davvero arricchente e vivificante.
Psichiatra: è un medico che dopo la laurea di base ha conseguito una specializzazione quadriennale in psichiatria, ovvero una tra le tante possibili specializzazioni della facoltà di medicina.
Tra tutte le figure professionali qui elencate, è l’unico autorizzato a prescrivere farmaci. Purtroppo però, spesso per carenza di risorse nel sistema sanitario nazionale, alla pur talvolta necessaria prescrizione di farmaci non si accompagna quell’ascolto e quell’accoglienza che sono altrettanto importanti affinché una persona sofferente possa migliorare la propria condizione.
Qualora l’incontro si riduca a un mero rinnovamento della ricetta precedente e a un generico “come va?”, è molto difficile che un paziente possa realmente guarire: possono ridursi i sintomi, il che è però ben diverso dalla riconquista di uno stato di benessere e serenità.
I farmaci sono necessari nei quadri sintomatici più forti, ma ad essi va sempre accompagnata una psicoterapia, o almeno qualche forma di aiuto psicologico, da parte dello stesso psichiatra adeguatamente formato oppure di un altro professionista.
Psicomotricista: si è formato attraverso un apposito corso di laurea come Terapista della neuro psico motricità, e opera con i bambini. Il suo aiuto è il più indicato di tutti in caso di disturbi neurologici o sensoriali, ritardi cognitivi o motori, disturbi del linguaggio o dell’apprendimento.
La psicomotricità non va intesa però come una panacea per qualsiasi problema del bambino, né come un surrogato della psicoterapia. Difficoltà più legate all’emotività, alle relazioni e allo sviluppo affettivo vanno affrontate con l’aiuto di uno psicologo o di uno psicoterapeuta con esperienza e formazione specifica per i bambini.

Vi ho quindi descritto caratteristiche e differenze delle professioni “psi”, attorno alle quali c’è spesso un alone misto di confusione, curiosità e timore.
Queste sono le uniche professioni adeguatamente preparate per occuparsi della salute mentale.
Rivolgersi a loro non deve essere motivo di inquietudine, anzi, prendere questa decisione significa aver già compiuto una gran parte del lavoro verso la risoluzione dei problemi, e forse la più importante: ammettere l’esistenza del problema, accettarlo come parte di sé e riconoscere di avere bisogno di aiuto.
Congratulazioni se siete già a questo ottimo punto dell’opera.
Concludo ricordandovi che un professionista della salute mentale ha il dovere, durante il primo incontro e prima di stipulare anche solo a voce un contratto tra voi, di informarvi con precisione circa la propria formazione accademica e non, circa la propria scuola di pensiero e il proprio modo di operare. Domandate senza remore su questi punti, affinché la scelta consapevole del professionista a cui affidare voi stessi o il vostro bambino sia l’inizio di un nuovo modo di affrontare la vita da protagonisti.

Il parto oggi: tecnologia o natura?

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Grazie all’autrice dell’articolo: Antonella Sangone
Fonte: Consapevolmente
Eppure il parto non è una malattia che necessita di una cura. Non è come un’estrazione dentale: un intervento in cui il paziente si fa asportare qualche cosa che sta creando problemi al suo corpo. Il parto è l’atto di dare alla luce una nuova persona, ed ha due protagonisti che sono ugualmente attivi e senzienti, ed entrambi perfettamente attrezzati da madre natura per portare a compimento l’impresa.
Il dolore combattuto da chi propone l’epidurale come soluzione è in realtà sofferenza, e cioè dolore privo di scopo e di senso, sommato a sentimenti di impotenza, angoscia, paura, solitudine, disorientamento. Questo modo di “soffrire” il parto è il prodotto di una certa cultura e di un certo approccio all’assistenza in travaglio di parto.
Tale cultura ha imposto alle donne un modello sacrificale di maternità, e l’ha relegata in una posizione totalmente passiva, di “paziente”, facendo di un evento sano e vitale un fatto medico. E tale approccio di assistenza si avvale di pratiche che ostacolano, quando non rendono totalmente impossibile, l’attivazione di quel sottile gioco di ormoni che permette al travaglio di progredire in modo facile e fisiologico: ad esempio gli interventi medicalizzanti (tricotomia, clistere, visite invasive, rotture delle membrane, episiotomie, manovre compressive di “spremitura”, farmaci per pilotare il travaglio); ma sono anche quegli aspetti ambientali che inibiscono il rilassamento e l’innesco dei riflessi ormonali che modulano il travaglio in maniera corretta. Ostacoli ambientali sono ad esempio lo stare in un ambiente sconosciuto fra gente sconosciuta, avere troppa gente intorno, luci forti, rumori, odori “di ospedale”, gente che si rivolge alla madre impegnando la neocorteccia del suo cervello (cioè le attività intellettive superiori), razionali, in un momento in cui queste dovrebbero essere silenti per consentire l’attivazione della paleocorteccia, che regola i meccanismi nervosi ed ormonali istintivi.
La fisiologia del parto, questa sconosciuta
Chi ha avuto la fortuna di assistere o ancora meglio di vivere un parto attivo e spontaneo, in condizioni naturali, può testimoniare di quali straordinarie energie dispieghi. Perché il processo del parto possa esprimere tutte le sue potenzialità, tuttavia, occorrono alcuni requisiti ambientali importanti. Un ambiente familiare – idealmente la propria casa; un “nido” sufficientemente intimo per poter partorire in completa sicurezza e intimità; silenzio e buio o penombra; la presenza discreta di una persona competente come semplice “testimone silenzioso”, pronta a intervenire solo quando viene richiesto ma per gran parte del tempo semplicemente presente. Con queste condizioni ottimali (o vogliamo dire normali?) il travaglio si svolge armoniosamente.
Le sensazioni di un parto veramente naturale (che è qualcosa di più che un parto semplicemente “senza complicazioni”) sono complesse, potenti e difficilmente classificabili. C’è il dolore, ma è mescolato insieme ad altre sensazioni, compreso il piacere sessuale; e c’è anche qualcosa di più indefinibile ancora, una sorta di piacere “cellulare”, la percezione dell’enorme energia che si sprigiona mentre tuo figlio si fa strada nel tuo corpo.
Tutte queste sensazioni sono talmente intense e fuse insieme che è impossibile definirle, né se ne sente il bisogno durante un travaglio veramente istintivo, in cui c’è poco spazio per il ragionamento o per le definizioni, in quanto si è totalmente immerse nel “lavoro” di mettere al mondo.
Chi ha avuto la fortuna di toccare questa esperienza, ha potuto verificare quanto potenti siano i meccanismi che si attivano quando si permette alla natura di fare il suo corso. Il dolore di parto ha anch’esso una sua funzione in questo quadro, perché fa scattare la produzione di endorfine, che sono degli analgesici naturali. Michel Odent, pioniere del parto attivo, parla inoltre di “riflesso di eiezione del feto”: un processo mediato da potenti rilasci di ormoni, come endorfine, prostaglandine e soprattutto ossitocina, che dà luogo a fasi espulsive rapide ed estremamente efficaci. La donna che partorisce in questo stato raggiunge un livello di coscienza che la fa immergere profondamente nel proprio corpo, in una condizione rilassata e concentrata insieme, sa istintivamente come respirare e muoversi nei diversi stadi del travaglio, e difficilmente finirà per partorire supina, come uno “scarafaggio rovesciato”, secondo un’efficace definizione.
I rischi dell’epidurale
Quando si consente alla natura di esprimersi secondo il suo programma innato, il dolore rientra in un quadro che è gestibile dalla donna. Ma questo la maggioranza delle donne non lo sa, e in genere nemmeno lo ottiene, e allora giustamente chiede qualcosa per lenire questo dolore. Di fatto, dopo aver defraudato milioni di donne di questa esperienza vitale, e aver trasformato il parto in un evento penoso, pericoloso, lungo, complicato, faticoso e sofferto, si rivende alla donna la soluzione sotto forma dell’ennesimo farmaco o dell’ennesima pratica chirurgica. Si impone la posizione sulla schiena che aumenta il rischio di lacerazione, e si risponde al problema proponendo una lesione preventiva, l’episiotomia; si creano distocie di travaglio e si offre ancora una volta il bisturi del cesareo come salvezza; e si promuove oggi l’epidurale come soluzione definitiva al dolore di parto, facendone addirittura una battaglia di diritto, con energie degne di miglior causa.
Si tratta di una battaglia ben triste, considerando anche la falsificazione della realtà operata quando si afferma che tale pratica sia priva di qualsiasi rischio.
Questo non corrisponde affatto a verità; l’epidurale è un intervento medico delicato e comporta una certa percentuale di esiti problematici. Fra le conseguenze più frequenti e banali vi è ritenzione urinaria, febbre, ipotensione, mal di testa, mal di schiena che possono persistere anche a un anno dall’intervento; in rari casi si verificano danni neurologici e in rarissimi casi la morte perché, come in qualsiasi intervento dell’arte medica, l’errore è possibile. L’ipotensione che a volte si produce in travaglio in conseguenza dell’epidurale può ridurre l’ossigenazione fetale creando sofferenza e forse possibili disfunzioni neurologiche minori nel neonato. Al di là di tutto, il grave danno causato dall’epidurale è quello di sottrarre il processo del parto alla fisiologia e di consegnarlo nelle mani della tecnologia medica, rendendo necessaria tutta una serie di altri interventi, come il monitoraggio continuo, la posizione distesa e immobile, l’uso di ulteriori farmaci per indurre contrazioni valide e accelerare il travaglio – che è rallentato proprio a causa dell’epidurale stessa. Come conseguenza, con questo metodo di anestesia aumentano i parti indotti, operativi (con forcipe o ventosa) e raddoppiano i cesarei.Ma i danni dell’epidurale non si fermano al momento del parto. Vi sono ripercussioni anche sul bambino. Come evidenziano le ricerche, attraverso una catena di conseguenze ancora da chiarire, molti bambini nati con epidurale presentano una disorganizzazione dei riflessi fondamentali di ricerca e suzione del seno. Dopo la nascita non si mostrano attivi e non si orientano verso il capezzolo ma effettuano movimenti caotici o sono poco reattivi; la loro suzione spesso è meno valida e coordinata di quanto dovrebbe essere, e queste difficoltà di suzione possono persistere anche a un mese dal parto. Si può facilmente capire come tale condizione, considerato lo scarso sostegno tecnico ed emotivo che ha la donna che allatta nella nostra società, sia più che sufficiente per pregiudicare il successo di molti allattamenti al seno, con una grave ricaduta sulla salute di bambini e madri che avevano scelto invece di allattare.
Per non sentire “male”
Nessuno vuole imporre alle donne in travaglio la sofferenza. Non ci sarebbe nulla di più ingiusto e sadico che impedire ad una partoriente di ricorrere a tutti i presidi dell’arte medica per lenire il dolore, dopo che le è stato impedito di avere un parto fisiologico e attivo. Sarebbe, oltre che perverso, anche pericoloso: nel momento in cui si è imboccata una strada, quella del parto pilotato medicalmente, occorre percorrerla fino in fondo per non esporre donna e bambino ai rischi delle conseguenze di tali interventi medici. Tuttavia è molto triste che si sia costretti a discutere sul diritto della donna di non soffrire dolori intollerabili perché sono stati resi tali, e a prezzo di correre rischi come quelli collegati alla pratica dell’epidurale, dei quali peraltro la partoriente non viene quasi mai messa al corrente. La scelta informata è ben altro che questo… ma d’altronde, se anche la donna sapesse dei rischi, nel momento in cui sta travagliando in modo antifisiologico e intollerabilmente doloroso, che crudeltà sarebbe porla di fronte a una simile scelta!
Occorre avere il coraggio di prendere atto delle conseguenze degli attuali approcci di assistenza al parto. L’alta tecnologia e la raffinatezza dei farmaci messi a punto dalle industrie sono strumenti preziosi per gestire gli eventi patologici, ma risultano controproducenti e lesivi della salute di madre e bambino quanto sono effettuati su soggetti sani. Occorre ricordarsi della massima ippocratica che ammoniva a non utilizzare l’arte medica se non quando necessario, perché in medicina “ciò che è inutile è dannoso” e, anche, la cosa fondamentale è “non nuocere”.
L’attuale filosofia “anestetica” del parto è finalizzata ad evitare alla donna di “sentire male”. Ma questo sentire “male” può anche essere letto come sentire in modo antifisiologico, disarmonico, alterato a causa delle interferenze a un evento che è invece di per sé potenzialmente semplice e vivificante.
Non si tratta di aderire a una mistica sacrificale del parto, non è una ricerca del dolore in quanto tale, come espiazione o prezzo da pagare per il bene del bambino: si tratta di un modo diverso di gestire il processo del travaglio, che rende inutili gli interventi medici perché consente l’attivazione dei meccanismi di compensazione naturale che il corpo delle donne, modellato in millenni di evoluzione naturale, possiede a servizio della vita e del benessere proprio e del bambino.