Lunedì mattina, fin dal risveglio, il pensiero che stasera ci addormenteremo già nel nostro letto a casa aumenta la voglia di goderci al massimo queste ultime ore a Londra.
Dopo aver fatto i bagagli e averli lasciati al deposito di Victoria Station, camminiamo fino al cuore della città: l’abbazia di Westminster, la House of Parliament e il Big Ben.
Trascorriamo tutta la mattina visitando l’enorme abbazia accompagnati dalla voce e dalle musiche d’organo dell’audio-guida.
Anche in mezzo alla calca di turisti di cui facciamo parte, lo slancio misurato e la grazia composta dello stile gotico inglese ispirano un senso di calma e raccoglimento.
Anche qui, come alla Tower of London e al British Museum, si ha l’impressione di vedere tutta la storia dispiegata sulla superficie piana del presente, come gli spazi e i volumi in un quadro di Picasso.
Fin dal primo re d’Inghilterra poco dopo l’anno mille, incoronazioni, matrimoni e funerali dei reali avvengono qui.
Adesso, però, non fanno altro che riposare in due cappelle affiancate e uguali, le cugine e acerrime nemiche Elisabetta I e Maria di Scozia, e non sarà certo il passo dei turisti a risvegliare i fanatismi religiosi e le lotte per il trono della loro epoca. Dormono qui scienziati e reali, pianti da processioni di statue.
Nient’altro che una corona di brutti papaveri finti veglia l’enorme lapide dei caduti in guerra britannici, e sento l’amara ironia della coincidenza con i versi di un grande pacifista di un altro tempo e di un altro luogo, Fabrizio De André.
Solo i poeti, gli scrittori e gli artisti, radunati in un angolo in fondo alla cattedrale, fanno ancora parte del presente. Non sono statue quelle raccolte in riflessioni o preghiere davanti ai loro nomi, ma persone di tutte le età e di tutte le nazionalità. William Shakespeare, Lewis Carrol, Mary Shelley, John Byron, Charles Dickens, ma anche Georg Handel e Laurence Olivier. Le loro opere, stampate sulla carta o registrate ormai in un impalpabile formato digitale, temono il passare del tempo meno dei loro nomi incisi nella pietra.
Rigenerati da questa boccata di infinito, ci rimettiamo in cammino verso Trafalgar Square, dove a tutte le ore il rumoroso brulicare della folla fa a gara con lo scrosciare azzurro delle fontane.
Lì pranziamo in un punto vendita della catena Pret-à-manger, decisamente economica per essere a Londra e buona per essere un fast-food.
Subito dopo imbocchiamo quello che si chiama, con l’inarrivabile ed esilarante arroganza inglese, semplicemente “The Mall”, Il Viale: porta da Trafalgar Square a Buckingham Palace – o Nothingham Palace, come lo ribattezzeremo un’oretta più tardi.
A lato del viale si estende il bellissimo Saint James Park, dove la sfacciataggine degli scoiattoli nei confronti delle persone non ha limiti, gli uccelli acquatici indossano eleganti velette vintage fatte di goccioline impigliate tra le piume del capo, e i colori sgargianti dei fiori si accostano tra loro in un caos armonioso che mi ricorda le danze e le maschere dello spettacolo teatrale visto due giorni fa.
E’ tutto l’opposto l’atmosfera solenne di Buckingham Palace e della piazza antistante, dove il contrasto tra il grigio uniforme del palazzo e l’oro vivo del monumento alla regina Vittoria crea un effetto surreale, quasi surreale quanto il fatto che si onori così la personificazione del colonialismo in una città che si proclama cosmopolita.
Ci guardiamo intorno e proviamo una sensazione molto simile a quella di chi è sobrio in mezzo a un gruppo di amici ubriachi: adolescenti in gran tiro armate di reflex grandi come kalashnikov, duckface e amiche servizievoli giocano alle modelle con lo sfondo del palazzo; intere famiglie di ogni provenienza spingono i passeggini fino a ridosso della cancellata per mettersi in posa; perfino una coppia di sposi giapponesi ha scelto questa come location per il loro servizio fotografico nuziale.
Non ci posso fare niente, se i miei occhi hanno un difetto non è tanto l’astigmatismo, quanto il fatto che sono usciti dallo stesso stampo che li ha foggiati al piccolo protagonista della fiaba “I vestiti nuovi dell’imperatore”. Il re è nudo, e non è un belvedere più di quanto non lo sia questo enorme casermone grigio che tutti sembrano fotografare per potersi sentire dispensati dal guardare.
Comunque, anche noi ci siamo sentiti in dovere di venire fin qui prima di lasciare la città, e la sorprendente scoperta che non c’è niente da vedere è pur sempre una scoperta.
Un’ora alla partenza del nostro treno per l’aeroporto di Gatwick: prima di incamminarci verso l’enorme stazione, recuperare i bagagli, fare la fila per restituire la Oyster Card e recuperare la cauzione e passare i tornelli che portano ai binari, ci concediamo un ultimo tuffo nel verde dolce di Saint James Park.
Qui ci imbattiamo per caso nel monumento agli alleati canadesi caduti in guerra, e la sua originale composizione di pietra, acqua e rame che riproduce lo scorrere di foglie d’acero nella corrente di un fiume si intona alla nostra malinconia della partenza.
Fortunatamente per noi e sfortunatamente per le nostre tasche, tutte le cose che avremmo voluto vedere senza riuscirci si sono spontaneamente ordinate nella nostra mente a formare in programma del nostro prossimo viaggio a Londra.
In questo quattro giorni abbiamo conosciuto ragazzi italiani che qui hanno trovato se stessi e si sentono a casa, e non abbiamo potuto fare a meno di domandarci se lo stesso potrebbe capitare anche a noi oppure no. Forse no, anche se una risposta definitiva non siamo riusciti a darcela. Quello che è certo è che siamo stati bene: non il bene che si risponde automaticamente alla domanda di rito di un lontano conoscente, ma il bene che incide nella memoria un ricordo speciale.